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CLEMENTE IX - Giulio Rospigliosi (1600-1669)
(Pontificato 1667-1669)

Nel trattare la biografia di papa Rospigliosi c'è una piccola premessa da fare. Clemente IX non è stato un papa che ha lasciato il segno. Non avrebbe potuto esserlo, dal momento che il suo pontificato, compromesso, fra l'altro, dai disagi di una salute sempre più cagionevole e precaria, è durato poco più di due anni. L'attenzione dei moderni va piuttosto alla sua vicenda di curiale di primo merito durante i pontificati dei suoi predecessori e in particolar modo alla sua vivissima presenza in una fase cruciale della cultura della Roma barocca. Di quella stagione Giulio Rospigliosi è stato uno degli attori più brillanti per quasi un trentennio. Benché la sua opera sia rimasta quasi interamente inedita fino a qualche anno fa, quando è stato celebrato il 400esimo anniversario della nascita, non vi è dubbio che in Giulio Rospigliosi sia da riconoscere in assoluto uno dei migliori librettisti italiani e il protagonista principale dei fasti del melodramma romano del Seicento, avendo contribuito in modo decisivo a determinarne i gusti e gli orientamenti.

La trentennale attività del teatro di palazzo Barberini, fra i più fastosi d'Europa, è dominata quasi per intero dalla personalità del Rospigliosi, che non è soltanto l'autore dei testi di molteplici rappresentazioni (sacre e profane), quasi tutte in scena, ma sicuramente anche l'operatore che è stato la chiave di volta di tutto l'edificio teatrale barberiniano.

GIULIO nasce il 27 gennaio 1600 da Girolamo e da Maria Caterina ROSPIGLIOSI a Pistoia, dove ricevette i primi rudimenti scolastici e, non ancora adolescente, la tonsura e gli ordini minori dalle mani del vescovo Alessandro Del Caccia. Il 16 marzo 1614 partì per Roma, per studiare al Collegio Romano. È questa una svolta decisiva nella vicenda della sua vita e della sua formazione culturale. Alla scuola di Tarquinio Galluzzi, Famiano Strada, Bernardino Castelli, i padri del classicismo secentesco, si forgiò il latinista destinato a dettare le eleganti missive della Cancelleria romana; e sul vivo esempio di Bernardino Stefonio (e forse su una concreta esperienza di recitazione negli spettacoli edificanti che i Gesuiti mettevano in scena con la partecipazione attiva dei seminaristi) il futuro scrittore imparò le regole di un teatro alleato della religione.

Al confronto il successivo soggiorno all'università di Pisa, dove Giulio si trasferì nel 1618 (o forse nel 1619) per compiere gli studi di teologia, di filosofia e di diritto, appare quasi una parentesi marginale, un necessario adempimento tecnico, se non proprio formale. Il suo destino era a Roma, dove egli traslocò di nuovo, appena conseguito il dottorato in utroque iure (1624).
Qui entrò al servizio del cardinale ANTONIO BARBERINI il vecchio (1569-1646), fratello del neoletto papa Urbano VIII. Ma i rapporti di Giulio con il nobile ceppo subito si estesero a tutti i suoi membri, non escluso lo stesso pontefice (che pare non esitasse ad avvalersi dell'opera del giovane letterato nella riscrittura degli inni liturgici che in prima persona si era assunto), e con particolare cordialità compresero i nipoti del papa: i cardinali FRANCESCO (che accompagnò in vari viaggi in Francia e Spagna) e ANTONIO il giovane, e TADDEO, capitano della Chiesa, prefetto di Roma e principe di Palestrina. Ed è anche questo uno snodo decisivo nella vita di Giulio.

Se alla scuola dei Gesuiti era nato l'uomo di lettere e di dottrina, alla scuola dei Barberini si forgiò l'abilissimo curiale, smaliziato in tutti i segreti della vita di corte e nello stesso tempo avvezzo a trattare fin da principio i più gravi e complessi maneggi della politica europea. Ma alla scuola dei Barberini si compiva anche l'uomo di gusto, l'amante delle belle arti, che anzitutto in se stesso raffinava quello stile di gentilezza e di urbanità, quella politesse che i suoi signori non sempre seppero serbare.
La cultura di ispirazione barberiniana diede vita a una scuola, per così dire, moderato-barocca e che, sul fondamento di un solido classicismo e sulla premessa di una certificata devozione, si proponeva una scrittura di alti sensi morali e di nobili intenti educativi, rifuggendo dalle esasperazioni concettuali e dal ribellismo alla moda, senza disdegnare e senza esagerare la seduzione della "meraviglia".

Al dibattito Giulio Rospigliosi diede un suo modesto contributo con un 'Discorso' stampato in appendice all'Elettione di Urbano VIII e di Francesco Bracciolini (1628). Ma il principale suo impegno fu profuso al melodramma romano, un prodotto per natura effimero e probabilmente irripetibile al di fuori del suo prezioso involucro costituito dalle mura del palazzo Barberini, un prodotto che conobbe breve e splendida stagione della quale Giulio Rospigliosi fu protagonista indiscusso.

Non era ancora agibile il nuovo grandioso palazzo alle Quattro Fontane sul Quirinale quando i Barberini inaugurarono la loro stagione operistica mettendo in scena l'8 marzo 1631 nel più modesto palazzo ai Giubbonari il SANT'ALESSIO, libretto di Giulio Rospigliosi, musica di Stefano Landi. La vicenda di Alessio, nobile romano che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, rinuncia ai privilegi della sua condizione sociale e al conforto stesso degli affetti familiari e si riduce, irriconoscibile pezzente, a vivere, deriso ed oltraggiato, sotto le scale della sua ricca abitazione, insegnava il disprezzo del mondo e degli effimeri e periclitanti beni terreni, per affermare nella solitudine, se necessario, il valore supremo della fede, dello spirito, dell'umiltà, della penitenza.

Al Sant'Alessio non compete il primato nella storia del melodramma di argomento sacro: eventi spettacolari anteriori al 1631 si erano avuti a Firenze, Mantova e nella stessa Roma; ma il suo successo strepitoso, favorito dalla cassa di risonanza della scena dei Barberini, ne fece un archetipo esemplare, consacrato dalle repliche che si tennero negli anni successivi. Ormai il melodramma ha conquistato il primo posto nelle rappresentazioni di gala romane. D'altronde, questa raggiunta dignità di nobile "rappresentanza" venne immediatamente confermata dalla lussuosa stampa della partitura (che doveva divulgare fuor di Roma i fasti del teatro Barberini), impreziosita da una serie di incisioni che riproducono le scene. Il nome del librettista non compare, nè mai sarà menzionato nelle designazioni ufficiali (anche se tutti a Roma ne conoscevano la paternità), certamente per un nobile scrupolo dell'autore, oltre che per ovvie ragioni di convenienza.

Nel 1633 si mette in scena ERMINIA SUL GIORDANO, primo melodramma profano del Rospigliosi, che attinge la storia a uno dei grandi serbatoi narrativi della letteratura italiana, la Gerusalemme liberata. Ne scaturisce una sorta di favola pastorale che dopo qualche sentimentale peripezia corona l'amore di Erminia per Tancredi, regalando allo spettatore il lieto fine vanamente atteso nella Liberata; domina il tono una malinconica grazia madrigalesca.
Il 1635, invece, è l'anno del secondo dramma sacro, I SANTI DIDIMO E TEODORA. Se il Sant'Alessio predicava l'umiltà e la rinuncia, il nuovo dramma esaltava l'eroismo per la fede. I due protagonisti si levano subito, 'campioni' di Cristo, a sfidare impavidi la rabbia dei persecutori, contendendosi in nobile gara il primato della 'testimonianza', la palma del martirio.

Il 1637 e ancor più il 1639 sono date memorabili nella storia della musica per la prima rappresentazione e la replica (in una redazione felicemente ampliata) di quella che è considerata la prima commedia musicale: l'EGISTO (o CHI SOFFRE SPERI), in assoluto uno dei più alti risultati della poesia per musica italiana. Anche in questo caso il Rospigliosi si affidava a un collaudato modello narrativo: la celebre novella boccacciana di Federigo degli Alberighi (Decameron V 9), intricata e contaminata, peraltro, di vicende minori parallele o intersecanti, fino allo scoppio finale di un vero e proprio spettacolo pirotecnico che tutto risolve e dissolve.

La novità più clamorosa era l'innesto di alcune maschere (Zanni e Coviello con i figli Frittellino e Colello) che portano sulle aristocratiche scene di un teatro di palazzo il saporoso dialetto e le burattinesche movenze della commedia dell'arte e traducono il motivo della signorile e generosa povertà del protagonista nell'eterna commedia della fame e del bisogno. Nel 1638, nell'intervallo fra le due redazioni dell'Egisto, era andato in scena il SAN BONIFAZIO; nel '41,'42 e '43 fu la volta della GENOINDA, de IL PALAZZO INCANTATO, del SANT'EUSTACHIO.
Seguì un lungo periodo di silenzio. Frattanto, infatti, avanzò nella sua carriera ecclesiastica. Già Segretario dei Brevi ai principi fina dal 1635, nel 1644 veniva consacrato vescovo di Tarso e nominato Nunzio Apostolico in Spagna. Poco dopo spirava Urbano VIII (Maffeo Barberini): era la fine di un'epoca. I Barberini, messi sotto accusa dal nuovo pontefice Innocenzo X per le loro malversazioni, ripararono in Francia, sotto la protezione del cardinale Mazzarino. Il teatro del palazzo alle Quattro Fontane restò chiuso per due lustri. Essendo amico e protetto dei Barberini, monsignor Rospigliosi non fu mai gradito dal nuovo pontefice.

Gli anni trascorsi in Spagna come Nunzio non sembrano segnati da eventi memorabili. I rapporti fra quella che restava una delle più potenti monarchie d'Europa e la Santa Sede erano tesi e difficili dopo anni di controversie giurisdizionali e di divergenze politiche. In questo spinoso contesto il Rospigliosi svolse un'attenta opera di mediazione, senza risultati appariscenti ma non per questo meno abile e tenace, tesa in primo luogo ad assecondare la grande offensiva diplomatica di Roma che mirava a ristabilire la pace fra gli stati cristiani e a creare un fronte comune contro la minaccia degli infedeli nei Balcani e nel Mediterraneo. La sua solerzia e la sua urbanità gli attirarono la stima e la fiducia del re Filippo IV. Ma nel soggiorno madrileno, più delle fatiche della diplomazia, fu rilevante l'incontro con il grande teatro spagnolo del 'siglo de oro'. Purtroppo la documentazione finora messa in luce è ben lontana dal rischiarare nel dettaglio le modalità di questo incontro, ma sta di fatto, che dopo la nunziatura, durata quasi 10 anni, la librettistica rospigliosiana subì una svolta così radicale che non si può che postulare una fervida osmosi.

Richiamato nel 1652 e rientrato a Roma nell'estate del 1653, meditò seriamente di ritirarsi a Pistoia a vita privata. Salvò una carriera che sembrava compromessa l'avvento al pontificato di Alessandro VII (1655) che lo chiamò alla Segreteria di Stato e che, alla prima creazione di cardinali (1657), lo elevò alla porpora. Assolvendo gli uffici della sua nuova carica con l'acume e la solerzia di sempre e guadagnandosi il favore della curia e della Francia (oltre a quello già incamerato della Spagna) la strada all'ultimo e supremo avanzamento era spianata.

Nel frattempo era ripresa la frequentazione assidua delle lettere e delle arti; e certo adesso si può parlare di un mecenatismo e di un collezionismo praticato in grande stile, sostenuto da adeguati mezzi finanziari. Nel 1654, amnistiati e rimpatriati i Barberini e riaperto il teatro del palazzo alle Quattro Fontane, DAL MALE IL BENE inaugura subito il ciclo "spagnolo". È uno spettacolo radicalmente innovativo rispetto all'età di Urbano VIII, quello che adesso va in scena. Si mette da parte il gusto mirabolante delle fastose scenografie e delle macchine ingegnose, si riducono gli organici, si compatta l'azione, si privilegia la coerenza sulla varietà. La 'fonte' spagnola (Los empeños de un acaso di Calderón) suggerisce una concezione più moderna e funzionale della commedia, incentrata sui caratteri e sugli intrecci. In questo modo il teatro Barberini conobbe un'autentica esplosione in coincidenza con il cosiddetto "Carnevale della Regina", cioè con i trionfali festeggiamenti che si tennero durante il carnevale del 1656 per onorare Cristina di Svezia, che l'anno prima aveva abdicato al trono e si era convertita al cattolicesimo.

Il ruolo di punta toccò ancora al Rospigliosi, che vide rappresentati ben tre dei suoi melodrammi: di nuovo Dal male il bene e, per la prima volta, LA VITA UMANA, una macchinosa allegoria, fortemente ideologizzata, nella quale si legge in filigrana il valore emblematico che la chiesa di Roma voleva attribuire alla conversione di Cristina, e LE ARMI E GLI AMORI. Dopo il 1656 gli impegni sempre più gravosi in curia, non assistiti da una florida salute, gli fecero mettere da parte l'attività teatrale; cosicchè anche il teatro Barberini avvizzì.
Alla morte di Alessandro VII un rapido ma diviso conclave elesse il 20 giugno 1667, grazie anche al favore della Francia, il cardinale Rospigliosi che assunse il nome di CLEMENTE IX, con l'insegna di un pellicano e il motto "aliis non sibi clemens", "clemente con gli altri ma non con se stesso", come recitava una sua medaglia.

Il promettente ma troppo breve pontificato di Clemente IX non segnò in modo significativo la storia della Chiesa. Gli atti di governo politico ed ecclesiastico confermarono, come il papa medesimo volle più volte che si ritenesse, gli orientamenti già delineati dal suo predecessore.

A livello di politica internazionale la questione che maggiormente assorbì le sue preoccupazioni fu la difesa dell'isola di Candia, ultimo possedimento veneziano nel Mediterraneo orientale, la cui piazzaforte era assediata dalle armate turche. Fin dal 1663 il Gran Visir Coprili, che aveva riorganizzato l'Impero Ottomano, aveva lanciato contro l'Occidente un esercito di 120.000 uomini e in ondate successive aveva spazzato la Moravia e la Slesia e aveva deportato 80.000 cristiani per venderli come schiavi sui mercati di Costantinopoli; mentre Venezia già si prodigava per la difesa dell'isola. Il papa inviò loro aiuti cospicui di galee, di uomini e denaro e fece di tutto per indurre Spagna e Francia a fare altrettanto e perciò si adoperò per comporre la Guerra di Devoluzione, nata alla morte nel 1665 del Re di Spagna Filippo IV perché Luigi XIV rivendicava parte del Regno per la moglie Maria Teresa, figlia di primo letto di Filippo IV, in concorrenza con Carlo II suo figlio di secondo letto, riuscendo a concludere la pace di Aquisgrana del 2 Maggio 1668 per la quale Marianna d'Austria, madre Reggente del settenne Carlo II, dovette cedere a Luigi XIV parte delle Fiandre. Luigi XIV in aiuto dei Veneziani inviò una flotta e un esercito ma con poca decisione per non turbare le relazioni amichevoli con i Turchi e la Spagna pure nicchiò diffidando dell'avversario francese. Le spedizioni militari inviate, nel 1668 e 1669 sotto il comando del nipote Vincenzo Rospigliosi, non ebbero esito felice. L'eroica resistenza veneziana fu costretta alla capitolazione: Candia, ridotta a un cumulo di macerie, cadde in mano nemica il 6 settembre 1669.

Più efficace fu il suo intervento nella controversia giansenista. Infatti l'adesione di una parte considerevole del clero francese e belga, a dispetto delle sempre più circostanziate condanne emanate da Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII, non metteva apertamente in discussione l'autorità della cattedra di Pietro, ma si riparava sotto lo schermo di cavillazioni causidiche nelle quali era maestro soprattutto Antoine Arnauld e che, salvando la forma, mantenevano nella sostanza le ragioni del dissenso. La conciliazione voluta da Clemente IX e formalizzata in un Breve del 2 febbraio 1669, detta in seguito PACE CLEMENTINA, contribuì alla riconciliazione delle parti e alla pacificazione generale, ma fu oscurata dall'atteggiamento ambiguo dei giansenisti, che sottoscrissero le dichiarazioni di fede volute da Roma, ma nello stesso tempo confermarono tutte le loro riserve in un protocollo segreto, ammantato sotto la formula del "silenzio ossequioso". La benedizione papale, salutata come una vittoria della diplomazia francese, fu accolta in Francia con autentico giubilo; ma il giansenismo continuò a vigoreggiare e ad espandersi, disseminando cellule anche in Italia. Il comportamento del papa fu interpretato, invece, nelle corti europee con molto scetticismo, come un segno di debolezza e di cedimento.

La sua mitezza e generosità si apprezzarono anche in altri settori. Uomo di profonda devozione, fece porre un confessionale in San Pietro e ogni giorno vi ascoltava le confessioni; tutti i giorni ospitava a tavola tredici poveri che serviva talvolta lui stesso; spesso visitava gli ammalati dell'Ospedale di san Giovanni. Dispose provvedimenti economici e fiscali a favore dei consumi popolari, del commercio, delle manifatture; abolì la tassa del macinato, favorì l'industria della lana e permise la libera circolazione dei grani. Emanò documenti che riordinavano la disciplina ecclesiastica, soprattutto riguardo al comportamento del clero regolare e dei missionari.
Nel 1669 istituì una Congregazione cui spettava il compito di regolamentare le Indulgenze, compito che nel 1908 passò al sant'Ufficio, e nel 1918 alla Penitenzieria Apostolica.

Non immune dal nepotismo nominò cardinale il nipote Giacomo, fece Castellano un altro nipote, Tommaso, e fece Generale dell'esercito papale il fratello Camillo, ma assegnò loro delle rendite veramente modeste.
Nella notte fra il 25 e il 26 ottobre Clemente subì un attacco apoplettico, dal quale sembrò riprendersi rapidamente; ma nella notte fra il 28 e il 29 novembre l'attacco si ripetè; il 9 dicembre sopravvenne la morte, dopo solo due anni e mezzo di pontificato.

Nel carnevale precedente era stato rappresentato per l'ultima volta un suo melodramma: LA BALDASSARA (o LA COMICA DEL CIELO). Anche la Baldassara era derivata da una "fonte" spagnola, ispirata a un autentico fatto di cronaca: la clamorosa conversione di un'attrice di successo, una donna perduta, a vita di devozione e penitenza. Anche qui assistiamo al percorso così caro al Rospigliosi, al cammino della santità: la scelta irremovibile del chiamato da Dio, la dissuasione da parte delle persone care, le tentazioni dell'"avversario" e le seduzioni dell'"abisso", l'apoteosi finale con parole paradisiache. Significativo il congedo che appare siglato da un'epigrafe assai suggestiva:
Del Paradiso ecco i teatri aperti:
Venga da’ suoi deserti,
Dall’orrore e dal gelo
A trionfar la Comica del Cielo!

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