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INNOCENZO X - Giovanni Battisti Pamphilj (1574-1655)
(Pontificato 1644-1655)

GIOVANNI BATTISTA PAMPHILJ nasce a Roma il 7 maggio 1574. Riceve una solida preparazione giuridica presso il Collegio Romano, dove consegue il dottorato in Utroque iure, e facendo lunga esperienza di affari politici in Curia, dove ricopre, tra il 1604 e il 1621, le cariche di avvocato concistoriale e uditore di Rota. E non solo a Roma: nel 1621 è nominato Nunzio Apostolico a Napoli e nel 1626 in Spagna; nel 1629 è elevato al cardinalato, ma era già stato nominato in pectore due anni prima, e nel 1639 riceve la carica di Prefetto di Concilio della Curia. 

Il 29 luglio 1644 muore Urbano VIII; dopo un conclave di trentasette giorni, nonostante l'opposizione del cardinale MAZZARINO (1602-1661; italiano, poi naturalizzato francese, che l'anno prima era divenuto, quasi continuatore della linea politica del Richelieu, governatore indisturbato della Francia, poichè tutore del nuovo re, Luigi XIV, salito al trono a soli 5 anni) il 15 settembre 1644, all'età di settant'anni, il cardinale Pamphilj saliva al soglio pontificio con il nome di INNOCENZO X, in ossequio a Innocenzo VIII.

Alla sua incoronazione venne illuminata, per la prima volta, la cupola della basilica di san Pietro, mentre le varie delegazioni nazionali organizzarono a piazza Navona (presso il palazzo Pamphilj) spettacolari luminarie.
Appena eletto Innocenzo X chiamò al rendiconto i nipoti del suo predecessore, i cardinali Francesco e Taddeo Barberini, per malversazione di denaro pubblico. Quest'ultimo aveva ricevuto per assegno dalla Camera Apostolica 5.000.000 di scudi, 8.000.000 per titolo di somme prelevate sotto i benefici vacanti, 5.000.000 se n'era procurati sui titoli delle conquiste, condanne e multe e, infine, 2.000.000 dalla rendita degli uffici; senza contare i palazzi, le ville, le opere d'arte, gli oggetti d'oro e d'argento e i gioielli. 
I Barberini fuggirono in Francia e trovarono colà un protettore nel potente cardinale Mazzarino, il quale, minacciando di far guerra a Roma, riuscì a far accantonare il processo e raggiungere, nel 1646, un compromesso con il governo francese che garantiva la restituzione ai fuggitivi. 

Nel 1647 condannò il malgoverno di Napoli, dopo la rivoluzione locale, pur essendosi precedentemente mostrato favorevole alla Spagna.

Ma il pontificato di Innocenzo X è politicamente ricordato perchè si colloca sul finire della guerra detta dei Trent'anni, la quale si concluse con il trattato di Münster tra la Francia e l'Impero e quello di Osnabrück tra la Svezia e i protestanti da una parte e i cattolici e l'imperatore dall'altra (24 ottobre 1648). Tali trattati sono conosciuti con il nome di PACE DI WESTFALIA che riorganizzò l'Europa in materia di legislazione religiosa: la libertà di culto concessa alla confessione luterana (Augusta, 1555) venne estesa a tutte le confessioni; ogni principe era libero di abbracciare qualsiasi confessione mentre i sudditi erano tenuti a seguire la religione del principe ("cuius regio eius et religio"); i cattolici e i protestanti furono parificati di fronte alla legge, salvaguardando i principi della tolleranza e della libertà religiosa; venne approvata la possibilità di trasformare le istituzioni e i domini ecclesiastici in giurisdizioni civili (inizia così il lento processo di secolarizzazione degli stati moderni).

Il Cattolicesimo ne risentì fortemente, anche perchè le clausole di Westfalia avevano come immediata conseguenza per la Chiesa cattolica la perdita definitiva di tutti i vescovadi della Germania settentrionale e centrale, nonché di numerosi conventi e monasteri. Innocenzo non sedette al tavolo della trattative, il nunzio Fabio Chigi (futuro Alessandro VII) presente al Congresso protestò, ma inutilmente; il papa allora scrisse contro le convenzioni della pace di Westfalia la Bolla "Zelus domus Dei" (26 novembre 1648). La protesta della Santa Sede, seppur fondata, venne completamente ignorata dalle potenze e non ebbe alcun effetto, anche per via della decadenza politica e amministrativa a cui il papato 'barocco' non poteva più sottrarsi.

Nel 1649 si rinnovò la guerra di Castro a causa dell'assassinio di monsignor Cristoforo GIARDA per mandato di un ministro del duca Ranuccio FARNESE. Fu messo in marcia un esercito che, invaso il piccolo ducato, costrinse alla resa Castro, di cui nulla le truppe pontificie risparmiarono: la città fu rasa al suolo e il papa ordinò che fra le rovine venisse innalzata una colonna con l'epigrafe: "Qui fu Castro". 
Con la pace di Ferrara si pose fine al conflitto e il ducato venne legittimamente restituito ai Farnese di Parma.

Innocenzo X dovette anche intervenire nella grave questione del Giansenismo: esortato da 88 vescovi francesi, dalla facoltà teologica di Parigi e da san Vincenzo de Paoli, istituì una commissione con il compito di esaminare cinque proposizioni tratte dal libro di Giansenio, l'Augustinus; egli stesso partecipò ad alcune sessioni. Il 31 maggio 1653, con la bolla "Cum occasione", le cinque proposizioni, ricavate dal dottore della Sorbona Niccolò Cornet, furono condannate come eretiche. Queste cinque proposizioni affermano: 

1. Alcuni precetti di Dio sono impossibili da osservare, neppure dai giusti, per la mancanza della grazia necessaria; 
2. Alla grazia interiore, nello stato di natura decaduta, l'uomo non può resistere; 
3. Per acquistare merito o demerito non si richiede la libertà dalla necessità interna, ma soltanto la libertà dalla costrizione esterna; 
4. I semipelagiani errarono insegnando che la volontà umana può resistere alla grazia o assecondarla; 
5. È un errore semipelagiano affermare che Cristo è morto per tutti.

Ma sarebbe stato illusorio sperare che la decisione avesse stroncato la controversia. I giansenisti rispettarono sì la sentenza papale in modo da riconoscere come eretiche le proposizioni censurate, ma guidati da Antonio ARNAULD, negarono che le proposizioni riflettessero la vera dottrina di Giansenio. Oltre Arnauld, si schierarono a favore del giansenismo anche il filosofo e matematico BLAISE PASCAL (che nelle sue 'Lettres provinciales' mise alla gogna l'immoralità dilagante degli ambienti altolocati francesi, tracciando ad un tempo anche un'immagine-caricatura della casistica gesuitica; l'opera fu messa all'Indice nel 1657), Pierre G. Nicole, l'intero monastero femminile di Port-Royal. 
Contro tale movimento prese posizione la Compagnia di Gesù. Gli agostiniani vennero a trovarsi tra due fuochi: venivano infatti in continuità accusati di collusione con le dottrine di Baio (decano dell'università di Lovanio, considerato precursore di Giansenio nella lettura di Sant'Agostino) e di Giansenio.

Innocenzo X fu il papa che indisse il XIV Giubileo con la bolla "Appropinquat dilectissimi filii" del 4 maggio 1649; fu lui stesso ad aprire la Porta Santa la vigilia di Natale. Egli provvide, come già era capitato per i giubilei precedenti, al blocco degli sfratti e degli affitti, e a sospendere tutte le altre indulgenze eccetto quella della Porziuncola. Fatto nuovo del Giubuleo del 1650 fu l'estensione dell'indulgenza giubilare alle province belghe e alle Indie occidentali con la Bolla "Salvator et Dominus" dell'8 e del 12 gennaio del 1654. Vennero a Roma circa 700.000 pellegrini, soprattutto dai territori vicino Roma; si convertirono al cattolicesimo anche diversi protestanti. A causa della grande affluenza di pellegrini il papa decise di ridurre il numero delle visite alle basiliche, e concesse l'indulgenza anche a chi aveva assistito alla chiusura di una delle Porte Sante alla vigilia di Natale del 1650 o fosse stato presente alla benedizione del papa impartita dalla Loggia della Basilica Vaticana nel giorno di Natale.

In questo periodo giubilare, la Spagna e la Francia, tra loro in conflitto, ne approfittarono per fare quasi a gara nel dimostrare la propria ricchezza nelle cerimonie. In particolare re Filippo IV mandò nel mese di gennaio due ambasciatori in Vaticano, uno in rappresentanza di sé, l'altro della moglie. Il primo si presentò accompagnato da un seguito di 300 carrozze, mentre l'altro si accontentò di sole 160. In più, non badò a spese perché le cerimonie organizzate nelle chiese e dalle confraternite spagnole superassero tutte le altre per magnificenza e splendore. Sono rimasti alla storia popolare del Giubileo del 1650 l'incidente avvenuto all'apertura della Porta Santa di santa Maria Maggiore e la processione del Crocifisso di san Marcello.

All'apertura della Porta Santa di santa Maria Maggiore, Francesco Maidalchini, nipote di Donna Olimpia (vedi sotto), ancora diciassettenne s'incaricò della funzione al posto del cardinale arciprete. Nel giubileo precedente una cassetta di oggetti preziosi veniva murata nella Porta Santa. Il giovane la prese e tentò di portarsela via ma ne venne energicamente impedito dai canonici di santa Maria Maggiore. Il Crocifisso miracoloso di San Marcello venne portato a San Pietro dalla Compagnia del Crocifisso, detta anche "dei disciplinati", la notte del Giovedi Santo. Lungo il percorso, mentre cinque cardinali, l'ambasciatore di Spagna, oltre cento flagellanti, cori musicali e la gente incedevano con lumi accesi, s'imbizzarrirono alcuni cavalli seminando tale panico che tutti fuggirono. 
In visita alle quattro basiliche spesso si avevano anche scontri tra le varie confraternite venute da fuori Roma, a motivo della precedenza. Il Giubileo del 1650 raggiunse l'acme della sua manifestazione nella messa del giorno di Pasqua celebrata dal papa in Piazza Navona. In onore di questo Giubileo Alessandro Algardi scolpì l'altorilievo raffigurante il papa Leone Magno mentre ferma Attila e la statua bronzea di Innocenzo X in Campidoglio; il Bernini (in un primo tempo avversato dal pontefice) scolpì l'estasi di santa Teresa, e il Borromini provvide al restauro di san Giovanni in Laterano. 
Furono, inoltre, avviati i lavori, commissionati al Bernini, per la costruzione del palazzo di Montecitorio, adibito a dimora papale. Il XIV Giubileo è considerato l'ultimo della Controriforma Cattolica. Tra gli illustri pellegrini ricordiamo la regina Cristina di Svezia.

Vanno ricordati, ad opera di papa Innocenzo, i suoi interventi nella questione dei riti cinesi (1645-1646) e i suoi incentivi alle missioni in Africa e Oriente.
Ma gli abbellimenti che papa Innocenzo apportò a piazza Navona sono fra i più splendidi e memorabili. La piazza, con la sua gioiosa esplosione di curve e con i capolavori di Bernini e Borromini rappresenta e sintetizza la Roma barocca. 
Nel 1647 fece innalzare nella piazza un obelisco, ritrovato sulla via Appia nel Circo di Massenzio. Le iscrizioni in geroglifici, nelle quali appare il nome di Domiziano, provano che apparteneva, in origine, ad un altro monumento: si trovava, infatti, presso il Tempio di Iside. L'obelisco è in granito e alto m. 16,54; lo stemma araldico del papa e la colomba con il ramo d'olivo decorano la roccia piramidale e simboleggiano il potere divino che scende come raggio solare lungo i quattro angoli dell'obelisco fino alla roccia, che ricorda la materia informe, il caos. 
Si noti la grotta scavata direttamente sotto le figure scolpite: un trucco dell'architettura manierista per dare l'impressione che il pesante obelisco si libri nell'aria.

L'obelisco fu solo la ciliegina sulla torta di un altro grande progetto: la Fontana dei Quattro Fiumi, ammirabile al centro della piazza. Fu nel 1650 che papa Pamphilj bandì una gara d'appalto per la sua edificazione, poichè egli aveva la sua residenza al Palazzo Pamphilj, nella medesima piazza, ora ambasciata del Brasile. Il progetto, in un primo momento, fu affidato al Borromini, ma il Bernini, allora in disgrazia presso il papa, o meglio, presso Donna Olimpia (vedi sotto), riuscì a riguadagnare il favore della potente donna e a soppiantare il rivale con uno stratagemma: fece pervenire ad Olimpia, e non al papa il quale probabilmente l'avrebbe rifiutato, un modellino d'argento della fontana con grotte, leoni, palme e sopra l'obelisco. Il pontefice, vedendo "per caso" il modellino, ne rimase entusiasta e trasmise l'ordine al Bernini. Secondo fonti dell'epoca, il modello piacque perché era fuso in argento e, soprattutto, perché fu lasciato in regalo all'avida Donna Olimpia. 

Il Bernini creò un mondo meraviglioso di sculture gigantesche, che richiamano il diverso carattere di quelli che all'epoca erano considerati i quattro fiumi più importanti del mondo: il Nilo, il Danubio, il Gange e il Rio de la Plata; l'Australia era sconosciuta. La Fontana con i suoi scrosci d'acqua e i suoi giochi di luce ammirabili ancora oggi, fu inaugurata nel 1651 e fu pagata con i proventi di alcune tasse sul pane, sul vino e su analoghi generi di consumo, che attirarono sul papa improperi di ogni tipo; la somma fu ingente perchè furono chiamati diversi artisti prestigiosi, precisamente uno per ogni statua-fiume (l'autore del Gange è Claude Poussin). Il Nilo ha la testa coperta, dato che a quel tempo le sue sorgenti erano sconosciute; per il popolo, invece, esprimeva il disprezzo di Bernini per la vicina chiesa di santa Agnese in Agone, progettata dal suo rivale Borromini, mentre il braccio alzato, a protezione della testa, nella figura del Rio della Plata, esprimeva il timore ironico dell'artista che la chiesa potesse crollare. Secondo il popolo, Borromini replicò ponendo sulla chiesa la statua di santa Agnese che con la mano sul petto fa un gesto, come per dire: "Qui non casca niente!". Tali dicerie sono però destituite da ogni fondamento, perché Bernini completò la fontana prima che Borromini iniziasse la chiesa. Secondo l'iscrizione voluta da Innocenzo X, il monumento intende magnificamente offrire "salubre amenità a chi passeggia, bevanda a chi ha sete, esca a chi medita".

Nel 1653 Bernini, disegnatore infaticabile, aggiunse alla fontana progettata nel 1575 da Giacomo della Porta, un delfino che reggeva, sulla coda alzata, una lumaca; difatti la fontana fu chiamata "della Lumaca" finchè la figura, che non piaceva nè ai Pamphilj, nè al popolo, fu sostituita con il busto di un africano che accarezza un delfino: nasce la Fontana detta "del Moro". La terza fontana della piazza detta di Nettuno, situata sul lato nord, venne trasformata nel secolo XIX a imitazione di quella del Moro.
Era consuetudine di papa Innocenzo chiudere gli scarichi delle tre fontane, lasciando debordare l'acqua fino a coprire la parte centrale della piazza, che era concava. Nobili e poveracci vi si divertivano: i primi, attraversando la piazza a cavallo o in carrozza, i secondi sguazzandoci sopra oppure spingendo in acqua i carretti a mano. Il "lago di piazza Navona" divenne una consuetudine estiva e per quasi due secoli, il sabato e la domenica del mese di agosto, la piazza si allagava, finché, nel 1866, sotto Pio IX, il divertimento venne sospeso.

Completa la piazza la maestosa chiesa di santa Agnese in Agone, fondata nel luogo in cui, pare, nel 304 d.C., venne martirizzata la giovane Agnese, fanciulla tredicenne di una famiglia dell'aristocrazia romana convertitasi al Cristianesimo, rea di avere rifiutato il figlio del prefetto di Roma. Nel 1652 papa Innocenzo affidò a Girolamo Rainaldi e al figlio Carlo l'incarico di una cappella a glorificazione della propria famiglia; l'anno successivo sostituì ai Rainaldi il Borromini, il quale lavorò alla chiesa per quattro anni. Egli si attenne abbastanza al progetto dei Rainaldi, salvo che per la facciata concava: l'architetto, infatti demolì la parete frontale e progettò una facciata di complessa plasticità utilizzando un gioco sapiente di curve che s'increspano verso l'interno e verso l'esterno per movimentarla e dare maggiore risalto alla cupola. L'interno della chiesa si presenta, contrariamente allo stile sobrio borrominiano, di un fasto eccessivo. Questo perchè nel 1657 una commissione di architetti, tra cui il Bernini, si sostituirono nel lavoro al Borromini, ma non alterarono l'unità del capolavoro. Si limitarono, per l'appunto, a vivacizzare l'interno della chiesa con dorature, sculture e una profusione di marmi policromi dal colore caldo. Il Bernini, in seguito, commissionò ad altri gli affreschi della cupola (Ciro Ferri, 1670-90) e dei pennacchi (G.B. Gaulli detto Baciccia, 1662-72). In sintesi possiamo dire che la monumentalità della chiesa è caratteristica di Borromini, l'ornato che la contraddistingue del Bernini.

Durante il pontificato di papa Innocenzo X abbiamo assistito ad uno degli esempi più vergognosi di nepotismo, grazie a Donna OLIMPIA MAIDALCHINI detta 'Pimpaccia'. Bella, intelligente e molto scaltra, donna Olimpia aveva sposato un ricco concittadino (era nata a Viterbo nel 1592) ma era rimasta vedova dopo poco tempo. Allora si era risposata di nuovo con un marito migliore del primo, il nobile Pamphilio Pamphilj che aveva trent'anni più di lei, ma si sa, al cuor non si comanda! Nella nuova famiglia Donna Olimpia fece amicizia in particolare con il cognato, il cardinale Giovanni Battista; rimasta vedova per la seconda volta, donna Olimpia divenne il consigliere più ascoltata del cognato pontefice, quasi la sua ombra. Il papa si fidava solo di lei e tutti sapevano che prima di prendere decisioni importanti Innocenzo si consultava sempre con lei. E proprio per questo nel giro di pochi anni si rese la donna più temuta, e più odiata, di Roma. Tutti coloro che desideravano avere un contatto con il papa dovevano prima avere il suo appoggio; e spesso l'appoggio veniva concesso dietro regali e denaro. E questo fa nascere molti pettegolezzi: a corte si dice, infatti, che i due sono molto di più che cognati...

Ma da dove deriva il soprannome di Pimpaccia? Sicuramente da un 'pasquinata'! Infatti sul Pasquino apparvero queste parole "Olim pia, nunc impia": 'una volta religiosa, adesso empia'! Da qui il soprannome Pimpaccia. Ma forse la definizione più divertente di Donna Olimpia fu questa: "Fu un maschio vestito da donna per la città di Roma e una donna vestita da maschio per la Chiesa Romana". 
Ovviamente la Pimpaccia pensò anche a sistemare il figlio Camillo, che fu prima nominato capo della flotta e delle forze dell'Ordine della Chiesa, e poi fatto cardinale, ma vi rinunziò perché volle sposare Olimpia Aldobrandini, giovane vedova del principe Borghese, benché venisse avversata dalla madre. Le invidie e le guerriglie tra le due Olimpie divennero il pane del pettegolo quotidiano delle famiglie nobili di Roma. Negli ultimi anni di vita del papa vendette benefici ecclesiastici per l'importo di 500.000 scudi. Fu esiliata dal successore di Innocenzo; morì nel 1657, lasciando in eredità 2.000.000 di scudi.

Le mediocri condizioni di salute portarono Innocenzo X alla tomba il 7 gennaio 1655. Donna Olimpia asportò dalla stanza di lui tutto ciò che trovò e nulla volle dare per la sepoltura. E così per l'avarizia dei parenti, il cadavere del pontefice dovette rimanere un giorno intero in una stanzaccia, esposto al pericolo d'essere rosicchiato dai topi, e solo grazie alla generosità del maggiordomo Scotti, che fece costruire una povera cassa, e del canonico Segni, che spese cinque scudi per la sepoltura, Innocenzo potè godere della pace del sepolcro nella chiesa, da lui commissionata, di sant'Agnese in piazza Navona, dalla quale, si dice, benedice chi non lo vede: difatti, la tomba è posizionata sopra l'ingresso, dalla parte interna, per cui ben pochi sono coloro che si voltano per ammirare il busto del pontefice.

Suggestivo il suo ritratto, realizzato dal celebre pittore spagnolo VELAZQUEZ durante il suo soggiorno romano tra il 1649 e il 1650. Traspare il suo aspetto ruvido, satirico e molto brutto e Velazquez non manca di cogliere queste sue caratteristiche, rimarcandole in un ritratto che ha una potenza espressiva notevolissima. Il quadro si regge su una serie di contrasti e di concordanze, che sono di mirabile invenzione. Innanzitutto è evidente il contrasto tonale tra il bianco e il rosso, che in varie sfumature domina in tutto il quadro. Solo due colori, ma che vengono così abilmente controllati nei rispettivi toni, da creare effetti visivi sorprendenti. Poi vi è il contrasto tra la sacralità della posa e del vestimento, e l'espressione decisamente poco ieratica del papa che sembra a stento trattenersi dal muoversi, quasi non sopportasse più di dovere stare fermo. Il ritratto appare così vivo e naturalistico, che divenne uno dei quadri più celebri di Roma e uno dei più ammirati anche dai visitatori stranieri. Tale la sua fama, che questo quadro è quasi divenuta un'icona dell'immagine papale, ed insieme un modello, per i pittori successivi, dell'arte del ritratto.

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