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ADRIANO VI - Adriaan Florensz Dedel (1522-1523)

ADRIAAN FLORENSZ Dedel, nacque a Utrecht in Olanda il 2 marzo 1459. Nonostante le umili origini fu teologo, professore e rettore dell'università di Lovanio dove ebbe come allievo Erasmo da Rotterdam. Fu scelto dall'imperatore Massimiliano come precettore del nipote Carlo, futuro imperatore, fino al 1515, riuscendo ad infondere una forte religiosità sul giovane. Questo tipo di formazione profondamente meditativa e contemplativa unita al carattere già profondamente introverso del suo protetto, diede vita ad una personalità di ottimo spessore culturale, intrisa di un fervente cattolicesimo, quasi mistico, che portavano il futuro sovrano, in casi di particolare difficoltà, anche a lunghi periodi di abbandono eremitico e di preghiera.

La protezione imperiale gli facilitò la carriera: vescovo di Tortosa e Inquisitore di Aragona e Navarra in Ispagna nel 1516; nominato da Leone X cardinale-presbitero del titolo dei santi Giovanni e Paolo nel 1517; Governatore generale della Spagna nel 1520.

Il conclave apertosi alla morte di Leone X era dominato da due correnti: quella filo-imperiale e quella filo-francese; non mancavano, però, rappresentanti di Enrico VIII, quale il cardinale Volsey. Il favorito sembrava fosse Giulio de' Medici (futuro Clemente VII). Dopo lunghe discussioni i suffragi furono dati al fiammingo Adriano di Utrecht, eletto il 9 gennaio 1522, malgrado la nazionalità straniera e le umili origini. Pochissimi a Roma lo conoscevano e ci volle poco a capire che la scelta di un tal cardinale si doveva alla preponderanza del partito di Cesare. Quando ricevette la notizia della sua elezione Adriano si trovava a Vittoria, città spagnola; accettò esclusivamente in obbedienza a Dio, cosciente della grave responsabilità a cui era stato chiamato.

Assunto il nome di ADRIANO VI, chiamato dall'Aretino 'la tedesca tigna', si preparò a partire, ma soltanto nell'agosto del 1522 riuscì a giungere in Italia, dopo aver rifiutato gli inviti di Enrico VIII, Francesco I e Carlo V che lo pregavano di recarsi presso le rispettive corti. Durante la sua assenza il governo fu tenuto da tre cardinali scelti a sorte ogni mese. Una volta entrato in Roma, venuto a conoscenza che si stava per costruire un arco trionfale in suo onore, che sarebbe costato cinquecento ducati, ordinò che fossero subito sospesi i lavori.

Con l'ascesa al trono pontificio di Adriano VI si passò dal fiorente mecenatismo e dalla mondanità della corte di Leone X all'austerità di questo monaco fiammingo che improntò la sua missione apostolica a rigore e severità. In un messaggio affidato ad un suo Legato, Francesco Chieregati, alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522 riconobbe apertamente "gli abomini, gli abusi e le prevaricazioni della corte romana; [...] malattia profondamente radicata, sviluppata ed estesa dal capo ai membri". Il tentativo di riforma intera incontrò le resistenze venali di una curia corrotta e ostile; per questo invitò a Roma Gian Pietro Carafa (futuro Paolo IV), per affidargli la riforma dei costumi e della disciplina del clero. Agli ecclesiastici che reclamavano perchè venivano privati di tanti emolumenti era solito ripetere: " Il papa deve ornar le chiese con i prelati e non i prelati con le chiese".

Tentò anche di arrestare, in Germania, i progressi di Lutero, invitando i principi tedeschi all'unità, rispettando la messa al bando dall'impero di Lutero. Ma a causa dell'ostilità largamente diffusa contro Roma, il suo appello incontrò una ben scarsa eco. Lutero potè continuare senza interruzione i suoi attacchi violenti contro la Chiesa; libelli come il "Monaco vitello" e il "Papa asino" uscirono in quel tempo dalla sua penna.

Si rese fautore di un'intesa tra il cattolico Impero, con Carlo V, e la cattolica Francia, con Francesco I, unendo le forze in una spedizione contro il pericolo turco: Rodi era caduta in mano musulmana il 25 dicembre 1522. Ma suo malincuore dovette aderire alla lega imperiale contro i francesi quando si accorse che Francesco I simpatizzava per gli ottomani e si preparava ad impadronirsi del Regno di Napoli.

Interessantissima una sua affermazione, tratta da un suo Commentario, sull'infallibilità papale: "Se per Chiesa romana si intende il suo capo o pontefice, è indiscutibile che egli possa errare anche su argomenti concernenti la fede. Lo fa quando predica l'eresia nei propri giudizi o nelle proprie decretali. In verità molti pontefici romani furono eretici, e l'ultimo di essi fu papa Giovanni XXII".

Nonostante la vasta impresa di riforma intrapresa, Adriano VI, forse perchè non amante delle arti e delle lettere (scrive il Negri: "dubito molto che un dì non faccia quello che dice aver fatto già san Gregorio, e che di tutte queste statue, viva grandezza e gloria romana, non faccia calce per la fabbrica di san Pietro!"), benchè assai caritatevole, non fu per nulla amato dai romani, abituati a spensierate baldorie di feste paganeggianti: quell'integrità morale non suonava affatto bene. L'insofferenza dei romani fu evidenziata dalla voce poetica del Berni che si scagliò contro il papa con versi pieni di sarcasmi e vituperi, talvolta pungenti, spesso semplicemente calunniosi. Nel 1523 Adriano VI allontanò da Roma il poeta per uno scandalo legato ad un amore omosessuale e, forse, anche per aver composto delle rime contro il papa.

Ma la voce più grossa, come sempre in questi casi, fu il Pasquino, portavoce ufficioso di sentimenti e risentimenti di nobili e non. E gli insulti sulle carte, affisse nottetempo al torso di Parione, si moltiplicarono al tal punto che Adriano pensò di liberarsene gettandolo nel Tevere. Fu dissuaso dal duca di Sessa che "con ingegno civile e arguto, disse che ciò non si doveva fare, soggiungendo che Pasquino, ancora nel più basso fondo del fiume, a uso delle rane, non avrebbe taciuto"!.

In questo clima ingiustificato di malcontento generale, Adriano VI improvvisamente si ammalò e morì (secondo alcuni storici a causa della sua smodata passione per la birra) il 14 settembre 1523, dopo neanche due anni di regno. La sua morte fu salutata come una festa; alla porta del medico personale, Giovanni Antracino, fu apposta l'iscrizione 'Liberator Patriae S.P.Q.R.' (al Liberatore della Patria, il Senato e il Popolo Romano). Cardinali, curiali, cortigiane, buffoni e parassiti si unirono all'assurda euforia dei romani, fiduciosi di riguadagnare terreno con il nuovo papa. La Roma gaudente non aveva compreso a fondo questo pontefice che aveva gettato, forse troppo precocemente, forse in maniera esageratamente austera, i semi della futura Riforma cattolica.

Fu sepolto provvisoriamente in san Pietro tra Pio II e Pio III; la 'pasquinata' non tardò ad arrivare: "Hic jacet impius inter Pios", 'Qui giace un non pio tra i Pii". Una semplice ma amara iscrizione, che ebbe comunque una degna e nobile risposta nell'epitaffio che egli stesso preparò per il suo sepolcro: "Adrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam quod imperare ", 'Qui giace Adriano VI, che ebbe la maggiore delle sventure, quella di regnare'.
A farla incidere fu l'unico fedele amico su cui potè contare anche da morto, il cardinale Wilhelm Enkenvoert, che provvide nell'agosto del 1533 a far traslare le sue spoglie in un grandioso mausoleo, opera dello scultore Niccolò Pericoli il Tribolo, nella chiesa dei tedeschi in Roma, santa Maria dell'Anima. Adriano VI fu l'ultimo papa non italiano prima dell'attuale Giovanni Paolo II.

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