Morto papa Eugenio IV il 23 febbraio 1447, i cardinali presenti a Roma del Sacro Collegio si riunirono il 4 marzo a conclave per eleggere il nuovo pontefice, nel convento dei Domenicani di Santa Maria sopra Minerva, dove era stato il precedente.
I cardinali erano 18, e già al primo scrutino 10 voti erano andati al cardinale Prospero Colonna, e 8 al cardinale Domenico Capranica. I due rappresentanti erano oltre che i più potenti di Roma i più in vista della riunione, e la votazione aveva seguito questo indirizzo, non altre qualità specifiche.
Alcuni cardinali fecero alcune considerazioni: la prima era quella di sbrigarsi ad eleggere un papa, e la seconda era un po' legata alla situazione politica-militare ancora caotica. Infatti il cardinale Le Juni, un po' infastidito che alla seconda votazione tre voti erano andati al cardinale Parentuncelli (come dire dispersi) un po' infastidito si alzò per dire "Sbrighiamoci ad eleggere un papa; la città è perturbata; il re Alfonso d'Aragona si trova quasi alle porte di Roma; il duca di Savoia (l'antipapa Felice V) cospira contro di noi; lo Sforza è nostro nemico..." e proseguì dicendo "...Dio ci ha dato una persona eccellente, il cardinale Colonna, e gli mancano solo due voti.
Sbrighiamoci, perchè ancora indugiare ? !!!".
Con un fare altruista, Parentuncelli (lui che aveva preso tre voti) alla successiva votazione si stava alzando per andare a dare il suo voto al Colonna.
A quel punto, si fece sentire il cardinale di Taranto: "Calma, ci vuole calma e riflessione, qui non dobbiamo eleggere un condottiero o un governatore, ma un rappresentante della Chiesa universale. Quindi non precipitiamo". Gli elettori del Colonna si adirarono, accusandolo che quella presa di posizione era motivata dal fatto che forse lui non gradiva il Colonna. Gli chiesero allora che facesse lui un nome, e quello senza esitazione indicò il Tommaso Parentuncelli, arcivescovo di Bologna, che da appena tre mesi era stato eletto cardinale. Aveva solo 49 anni.
La sorpresa fu che alla successiva conta, la sua elezione fu unanime. Fuori i Romani, avendo sentito che il Colonna era il favorito, e qualcuno aveva riferito perfino che era stato eletto, come di solito i romani erano abituati a fare, si precipitarono subito alla casa dei Colonna per ricevere i donativi, ma spesso erano veri e propri saccheggi nell'abitazione di oggetti vari che al neo eletto non servivano più.
Resisi conto dell'errore, saputo l'altro nome, vollero fare il bis assaltando la casa del neo-pontefice. Ma questi non era un Colonna, ricchi appartamenti non li possedeva e tantomeno dentro vi erano oggetti di valore, quindi il bottino fu piuttosto scarso, Parentuncelli - amante degli studi, appassionato bibliofilo- aveva in casa solo libri, e questi ai romani interessavano molto poco.
Asceso al pontificato Niccolò riuscì a dedicarsi con più impegno quello che era stato sempre il suo sogno: raccogliere libri, costruire magnifici edifici per farne biblioteche o dare impulso alle arti e alle lettere. Parecchi anni prima per incarico di Cosimo de' Medici aveva ordinato a Firenze la biblioteca di Niccolò
Niccoli. Mentre anni dopo - non badando a spese - fu lui a dare inizio alla Biblioteca Vaticana.
I maggiori umanisti del tempo affluirono alla sua corte, quali il POGGIO, il VALLA, il MANETT, il DECEMBRIO, il GILELFO; si circondò di amanuensi e di traduttori, fece cercare manoscritti in Italia e fuori, raccogliendo una biblioteca di circa cinquemila volumi; fece costruire o restaurare mura, chiese ed altri edifici non solo in Roma, ma ad Assisi, a Civitavecchia, a Civitacastellana e in altre città, e molto di più avrebbe fatto se meno breve fosse stata la sua vita (57 anni) e il suo pontificato (8anni).
Il neo-pontefice fu poi consacrato il 19 marzo, e prese il nome di NICCOLO' V.
Uno dei cardinali del conclave, il portoghese Martino di Chavez, entusiasta per la scelta, volle aggiungere che "...non i cardinali lo avevano eletto ma Dio in persona". A parte che in un conclave la protezione divina è scontata, in effetti Niccolò iniziò un pontificato sotto una buona stella. Tre mesi dopo la sua elezione - il 15 luglio 1447 - moriva Filippo Maria Visconti il nemico più pericoloso dello Stato Pontificio e l'uomo che aveva tenuto in armi buona parte dell'Italia; Bologna la ribelle, forse anche per far omaggio al suo vescovo ora diventato papa, spontaneamente tornava all'obbedienza; in quanto allo scisma della Chiesa e dell'antipapa, questo ebbe una fine curiosa. Venticinque mesi dopo l'elezione di NICOLÒ V, l'antipapa FELICE V (Amedeo di Savoia) rinunziò alla tiara nelle mani del concilio a Losanna e questo, fingendosi d'ignorare che sul soglio pontificio lui sedeva da due anni, il 19 aprile del 1449 elesse lo stesso Niccolò V.
Un anno prima - il 17 febbraio 1448 a Vienna, era stato firmato anche un concordato con l'imperatore Federico III, ratificato da Niccolò il 17 del mese successivo. Tale concordato regolò per alcuni secoli la materia ecclesiastica negli Stati tedeschi.
Per solennizzare la pace felicemente conseguita con gli Stati e cementare l'unione interna della Chiesa, Niccolò annunciò il 4 gennaio 1449 la concessione del giubileo per l'anno seguente. Malgrado in quell'anno infuriasse la peste, considerevole fu il concorso dei pellegrini e rilevanti furono pure i guadagni dei Romani e della Chiesa. I cronisti e i testimoni oculari del tempo ne parlano con ammirazione; dicono essere stato superiore a quello indetto da Bonifacio VIII come numero di pellegrini e per le offerte. Se dobbiamo credere a Vespasiano da Bisticci, il Pontefice depositò nella banca dei Medici ben centomila fiorini. Enea Silvio Piccolomini assicura che giornalmente entravano in Roma ben 40.000 persone.
In questa grande ressa, si registrò un gravissimo incidente: mentre due grandi file di folla s'incrociava a Ponte S. Angelo, per l'improvviso impennarsi di alcuni cavalli, si scatenò il terrore e con un fuggi fuggi generale irrazionale, chi ci riusciva a spintoni calpestava chi si attardava, i deboli, i malati, i bambini.
Quando tornò la calma in terra c'erano 170 cadaveri, poi raccolti e deposti nella vicina chiesa di S. Celso. Niccolò fu così rattristato che si ammalò pure.
Purtroppo questi lutti non furono i soli nel corso dell'Anno Santo. All'inizio del 1450, da alcuni mesi in Italia serpeggiava la peste, e chi si era messo in viaggio per Roma perchè scampato o per ricevere la grazia dell'immunità, giunti negli afosi caldi estivi a Roma, o perchè erano loro stessi ignari portatori con la malattia in incubazione e la trasmisero agli altri, o perchè la presero da altri, o perchè si nutrivano e bevevano ciò che trovavano, l'epidemia nella città scoppiò violenta. Si moriva ovunque, gli ospedali erano piene e le chiese che avrebbero dovuto ospitare i pellegrini, si riempirono di ammalati.
Da Roma fuggirono non solo i pellegrini, ma anche cardinali, vescovi, abati, monaci. Lo stesso papa abbandonò la città, rifugiandosi ora in un luogo ora in un altro. Nel castello detto di Fabriano trovò nessun malato, e proprio per questo fu proibito sotto pena di scomunica chiunque si portasse "pubblicamente o segretamente" a Fabriano.
La paura del contagio interruppe l'affluenza dei pellegrini, che col viaggio a Roma aspiravano all'indulgenza. Per non compromettere gli enormi interessi finanziari di questa grande festa giubilare, tornò in auge l'indulgenza per procura. Vennero concessi con speciali bolle a numerosi principi l'incasso delle indulgenze, cosicchè i pellegrini senza intraprendere il pellegrinaggio, versavano un obolo (che normalmente corrispondeva al denaro di circa la metà del prezzo del viaggio a Roma) e si guadagnavano standosene a casa l'indulgenza plenaria.
Quandò tutto questo finì, con gli oboli e le indulgenze, le casse erano piene, e questo denaro servì egregiamente per rinforzare la struttura del potere temporale del pontefice e dei suoi vicari. Ad alcuni tutto ciò non piacque, dicendo che non era quello l'ideale cristiano dell'istituzione papale, anzi questo ideale veniva tradito. Gregoriovus è piuttosto esplicito "Niccolò agli occhi degli apostoli commetteva un errore scambiando il papato con la Chiesa e le cose di Stato ecclesiastico con quelle della repubblica di Cristo". C'erano insomma dei malumori ma anche voci inquietanti.
Niccolò V era ben lontano dal sospettare che qualcuno potesse tramare contro di lui. Eppure c'era chi, desideroso di ridare a Roma la libertà, non esitava, pur di raggiungere questo scopo, a meditare di sopprimere il Pontefice. Era costui un gentiluomo romano che rispondeva al nome di STEFANO PORCARI. Si era fatto notare per le sue idee rivoluzionarie ancora prima del 1447 con l'eccitare il consiglio della città, riunito nella Chiesa di Aracoeli, ad abbattere l'autorità temporale, approfittando degli interregni. Poi eletto il Pontefice, aveva continuato nella sua agitazione rivoluzionaria tanto che Niccolò V aveva dovuto confinarlo a Bologna con l'ordine di presentarsi ogni giorno al cardinale Bessarione, che era allora il governatore di quella città.
Ma anche da Bologna il Porcari continuò a tramar con i suoi amici di Roma e quando gli parve che tutto fosse pronto, fatto sapere al Bessarione che non poteva per malattia presentarsi a lui, fuggì travestito a cavallo e dopo quattro giorni di viaggio giunse a Roma il 2 gennaio del 1453. Il colpo destinato a dar la libertà ai Romani doveva esser tentato il giorno dell' Epifania. Quattrocento erano i congiurati, di cui erano capi due nipoti e un cognato del Porcari. Il giorno stabilito, dovevano appiccare il fuoco al Vaticano e, approfittando dello scompiglio che ne sarebbe nato, arrestare i Cardinali e il Pontefice, uccidere quest'ultimo se occorreva e chiamare al suono delle campane il popolo alle armi.
La vigilia dell' Epifania però la congiura venne scoperta. Avvisato della fuga del Porcari dal Cardinale Bessarione, il Pontefice aveva ordinato che si ricercasse l'agitatore. Con tante persone che erano a parte della congiura qualcosa era trapelato, non fu quindi difficile sapere il luogo dove i caporioni erano soliti a riunirsi. Un forte reparto di milizie circondò la casa dov'era radunato buon numero di congiurati; questi opposero una accanita resistenza, ma alla fine dovettero arrendersi; il Porcari, che era riuscito a fuggire, fu trovato poi nella casa di sua sorella, nascosto in un cofano, arrestato e condotto in prigione, fece piena confessione della congiura. Il 9 gennaio, insieme con altri congiurati, venne impiccato ai merli di Castel S. Angelo. Il papa fu accusato di crudeltà e di essere fedifrago, perchè aveva promesso si suoi nemici la prigione e non la pena di morte. Ma si disse che quando gli fu sottoposta l'atto di grazia, era ubriaco e non fu in grado di firmara l'atto di clemenza.
Questa congiura, che si trascinò dietro parecchie esecuzioni, ma anche molti libelli per Roma considerate le prime "pasquinate", rattristò molto il Pontefice, il quale divenne diffidente e sospettoso e di umore tetro. Cinque mesi dopo un altro e più grave dolore colpiva Niccolò V: la notizia della caduta di Costantinopoli, e questo dolore veniva aggravato dal fatto che la Cristianità si mostrava freddissima all'idea di una crociata e la stessa Venezia stipulava un trattato di pace con il Turco (18 aprile 1454).
Addolorato dagli avvenimenti d'Oriente e da quelli di Roma, Niccolò V non si rimise più in salute. Tuttavia una consolazione la ebbe quando si giunse alla pace di Lodi (una pace che diede un quarantennio di pace all'Italia).
Il 2 marzo 1455, Niccolò con questa pace poteva annunciare la formazione di una grande lega offensiva e difensiva fra gli Stati Pontifici, Napoli, Firenze, Venezia e Milano.
Tre settimane dopo - il 24 marzo 1455 - Gregorio moriva. Qualcuno dice di gotta perchè gli piaceva mangiare molto, altri dicono di cirrosi epatica perchè anche nel bere non era per nulla moderato.
Una "pasquinata" ( riferendosi alla mancata clemenza ai congiurati) impietosamente diceva: "Da quando è Niccolò papa e assassino / Abbonda a Roma il sangue e scarso è il vino".
Questo e altri giudizi poco positivi, erano forse dettati da rancori, erano insomma le voci dei nemici. Mentre nei giudizi positivi, quel che è certo è che nel suo breve pontificato (8 anni) Niccolò lascio il segno. Come primo papa rinascimentista - come abbiamo già accennato all'inizio - i maggiori umanisti del tempo affluirono alla sua corte, e così i maggiori artisti. Nell'accoglierli Niccolò non solo faceva del grande mecenatismo, ma li trattava come veri signori, ed erano questi incontri degli ambiti ritrovi mondani, che qualcuno paragonò a quelli sfarzosi di Avignone. Ed erano spesso anche delle riunioni conviviali, dove si mangiava e si beveva; forse un po' troppo (come diceva la "pasquinata")
Come il precedente papa (il Colonna che però era un illustre romano) anche lui non badò a spese per il rinnovamento della città oltre che promuoverne una riedificazione. A parte la ricostruzione delle mura, le fortificazioni di Castel Sant'Angelo e altri notevoli lavori, quello che ebbe un notevole punto di partenza, fu il Vaticano e la nuova Basilica di San Pietro. Fra un convivio e l'altro, Leon Battista Alberti gli presentò un ambizioso grande progetto, e altrettanto gigantesche erano le opere da costruire. Niccolò, preso dall'entusiasmo, il progetto lo approvò integralmente, forse nemmeno rendendosi conto che stava firmando delle opere che avrebbero sfidato il tempo e ridato lustro a Roma.
Questi grandi lavori rimasero allo stato iniziale per la sopravvenuta morte del pontefice, e solo in seguito furono ripresi. Tuttavia negli altri grandi lavori architettonici portati a termine Niccolò si era impegnato molto, anche se per realizzarli spogliò i più antichi monumenti romani. Proverbiale la frase "Niccolò, spogliava
un altare per rivestirne un altro". Fu infatti lui a far "spogliare" di bellissimi marmi e di travertino, il Colosseo prima, e il Circo Massimo poi.
Il Rinascimento architettonico creò così grandi danni, ma ci ha lasciato anche grandi tesori.
Quando il 24 marzo 1455 Gregorio morì, dopo 8 anni di pontificato, aveva solo 57 anni; per le sue grandi doti di umanista fu rimpianto dai grandi dotti di cui era diventato amico (quali il Poggio, il Valla, il Marsilio Ficino, il Manenti, l'Aurispa) e dai grandi artisti (quali il già nominato Alberti, poi il Beato Angelico, Piero della Francesca, Andrea del Castagno, Benozzo Gozzoli e altri).
Enea Silvio Piccolomini (futuro papa Pio II) ci ha lasciato di Niccolò un eloquente epitaffio, che inizia col dire "Questo papa ha fatto rinascere in Roma l'età aurea".
La successiva fu invece un età piuttosto triste, con un papa che non lasciò rimpianti; purtroppo lasciò dei nipoti, che in seguito conosceremo molto bene.
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