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MARTINO V, Oddone Colonna, romano
(1417-1431)

Dopo aver eletto il nuovo pontefice, il Concilio di Costanza si sciolse il 22 aprile 1418, e nel maggio del 1418 Martino V lasciò Costanza e per Berna e Ginevra si rifugiò a Torino. In Piemonte — scrive l’Orsi — « la situazione politica si andava semplificando. Appunto in quell’anno moriva il principe Ludovico d’Acaia e con lui si estingueva questo ramo della famiglia; i suoi possessi naturalmente passavano ad AMEDEO VIII, rappresentante il ramo principale di Savoia. Una dinastia che ormai raccoglieva nelle sue mani una tale distesa di paesi al di qua e al di là delle Alpi da non avere più tra i principi vicini chi potesse eguagliarla".Dal Piemonte papa Martino V passò in Lombardia. Qui Filippo Maria Visconti usando ogni mezzo, era intento a ricostituire lo stato paterno.
(vedi nei dettagli la cronaca in queste pagine della Storia d'Italia)
Martino V, dopo una breve dimora a Milano (vi consacrò l'altare maggiore dell'attuale Duomo che stava allora sorgendo) si recava a Brescia per tentare di conciliare Pandolfo Malatesta e il Visconti. Da Brescia il Pontefice passò a Mantova presso i Gonzaga, e vi rimase per tutto il resto dell’anno, poi andò a Ferrara, di cui era signore Niccolò III d’ Este e il 26 febbraio del 1419, evitando la ribelle Bologna, giunse a Firenze ben accolto. Questa repubblica, da quando Ladislao era morto, viveva in tranquillità. Padrona di molta parte della Toscana, viveva in pace con i vicini, non si curava di intromettersi nelle vicende che tenevano agitati gli altri stati, aveva stretta amicizia con Giovanna di Napoli, e dal 1413 si era pacificata con Genova.A Firenze, il Pontefice, temendo che Giovanni XXIII prigioniero in Baviera riuscisse ad evadere per le molte aderenze che là aveva, lo fece tradurre in Italia, volendo assegnargli come sede un carcere a Mantova. Ma durante il viaggio il deposto Pontefice fuggì, ma dopo un breve soggiorno in Liguria, andò a Firenze e si gettò il 13 maggio del 1419 ai piedi di Martino riconoscendolo Papa legittimo. 
Questi gli lasciò la dignità cardinalizia e Giovanni XXIII, ripreso il nome di Baldassarre Cossa, si sta- bili in Firenze dove morì sette mesi dopo.
Durante il suo soggiorno a Firenze, Martino V rivolse la sua politica al riacquisto dello stato pontificio. Per raggiungere questo scopo si accostò alla corte di Napoli (cosa che aveva già fatto Firenze) , dove inviò il nipote Antonio Colonna. La missione di costui fu molto proficua: difatti, in cambio del riconoscimento di Giovanna II quale regina di Napoli, il Pontefice ottenne che la regina gli consegnasse Roma, Civitavecchia, Ostia e tutte le altre terre della Chiesa occupate da Ladislao; che Giacomo della Marcia fosse lasciato libero e che lo Sforza con le sue milizie lo aiutasse a strappare a Braccio di Montone, Perugia e le altre conquiste. Il re Giacomo, lasciato libero, disperando di riacquistare l’autorità perduta, fece ritorno in Francia, dove, fattosi francescano, morì vent'anni dopo nel 1438; Giovanna Il fu con grande solennità incoronata a Napoli il 28 ottobre del 1419 alla presenza di Giordano ed Antonio Colonna; MUZIO ATTENDOLO SFORZA fu creato gonfaloniere della Chiesa e con gran gioia di ser Gianni Caracciolo che vedeva allontanare un rivale marciò contro BRACCIO DA MONTONE. Una sanguinosa battaglia venne combattuta tra i due celebri condottieri tra Montefiascone e Viterbo e la fortuna arrise a Braccio da Montone che, fatti prigionieri duemila e trecento cavalieri, inseguì il suo nemico fino alle porte di Viterbo dove questi a stento riuscì a salvarsi. 
La sconfitta dello Sforza tornò gradita più che a qualunque altro al Caracciolo, il quale - imbaldanzito- indusse la regina a rifiutarsi alle richieste del Pontefice che voleva fossero da lei somministrati aiuti per ricostituire il suo esercito. 
Sdegnato da questo rifiuto e vista svanire la speranza di vedere il nipote Antonio adottato dalla regina, papa Martino V concepì il disegno di vendicarsi; prima però volle terminare la guerra che aveva intrapresa contro Braccio e, accettata la mediazione dei Fiorentini, si pacificò con lui. 
BRACCIO DA MONTONE andò di persona a Firenze per trattare con il Papa nel febbraio del 1420. 
Solenne fu il suo ingresso nella capitale toscana; il popolo fiorentino applaudiva per le vie al condottiero che si era acquistato grande fama con le sue vittorie. 
Braccio cedette al Pontefice, cui prestò giuramento di fedeltà, le città di Narni, Terni, Orvieto ed Orte e tenne per se, ma col titolo di vicario della Chiesa, Perugia, Todi, Assisi, Spello, Jesi ed altre terre; inoltre si mise al servizio del Papa e dietro suo ordine marciò contro Bologna, di cui si era insignorito, il 26 gennaio di quell’anno, Antonio Galeazzo Bentivoglio.
In poco tempo i castelli del Bolognese caddero in mano del condottiero perugino, che li occupò in nome della Chiesa; Bologna, non potendo resistere alle milizie di Braccio, il 15 luglio del 1420, aprì le porte. 
Dopo questi successi, Martino V lasciò Firenze e mosse alla volta di Roma, dove fece il suo solenne ingresso il 29 settembre del 1420. Fattosi amico di Braccio da Montone e deciso a vendicarsi della regina di Napoli (che si era rifiutata di aiutarlo ad allestire un esercito), papa MARTINO V trovò un validissimo aiuto in MUZIO ATTENDOLO SFORZA che era mosso dall’odio contro Gianni Caracciolo, e trovò pure un pretendente al trono napoletano in LUIGI III d’ANGIÒ. A Firenze erano stati presi gli accordi per l'impresa meridionale tra il Pontefice, lo Sforza e gli ambasciatori dell’Angioino, i quali, messe a disposizione del condottiero vistose somme, fecero sì che questi potesse ricostituire il suo esercito e marciare alla volta di Napoli. Tuttavia fingendosi paciere, MARTINO V invitò Giovanna e Luigi a mandargli a Firenze, dove allora si trovava, ambasciatori perchè si risolvesse pacificamente la contesa. La regina Giovanna mandò come suo ambasciatore un abilissimo diplomatico, ANTONIO CARAFFA soprannominato MALIZIA. Questi non tardò ad accorgersi delle vere intenzioni del Pontefice e rese un prezioso servizio alla propria sovrana procurandole un potente alleato: ALFONSO d’ARAGONA.Lo Sforza che con i mezzi messi a disposizione dal papa avrebbe dovuto impegnarsi, non solo combinò ben poco a Napoli, ma comportandosi da tiranno e compiendo eccidi e stragi, sdegnò perfino i suoi uomini che passarono al nemico.
La debolezza dello Sforza non poteva non preoccupare il Pontefice, il quale prevedeva la sconfitta dell’Angioino che proteggeva. Egli si pentiva di essersi messo a favorire una causa, la quale gli costava molto denaro, e non solo, ma minacciava di far rinascere lo scisma. Difatti Alfonso d'Aragona, per rappresaglia, ordinava che in tutti i suoi stati fosse tolta l’obbedienza a Martino V e venisse riconosciuto Benedetto XIII che viveva a Peniscola. Vedendo mancarsi l’appoggio del Papa, Luigi III d’Angiò si recò a Roma per tener gli occhi aperti sull’alleanza di Martino V : ma mentre cercava di ottenere il protettore che gli stava sfuggendo, perdeva il generale che con le armi aveva fino allora sostenuto la causa angioina: Muzio Attendolo Sforza si riappacificava con Braccio da Montone e per mezzo di questo — il quale desiderava di tornarsene nella sua signoria per estenderla — si riconciliava con la regina da cui riceveva la città di Manfredonia. 
La causa di Luigi d’Angiò pareva perduta quando le sue sorti tornarono a rialzarsi per i mutati rapporti tra la regina Giovanna ed Alfonso d’Aragona. Ben presto i feudi napoletani tornarono in potere di Giovanna. Nel contempo ci furono le guerre di Venezia e Firenze, quelle dei Visconti con il Carmagnola ecc. ecc.
(vedi la lunga cronaca di questi fatti nelle pagine dedicate in Storia d'Italia )Torniamo al pontefice. Quando Martino fece il suo solenne ingresso a Roma il 29 settembre del 1420, accolto da un giubilo popolare enorme (era da 135 anni che i Romani non vedevano un concittadino papa) trovò la citta in misere condizioni, era in un quadro di decadenza spaventosa. E come Romano si diede molto da fare per la ricostruzione della propria città. Varò un ordinato piano amministrativo che rese Roma nuovamente vivibile; iniziò grandi lavori, ristabilì i magistri viarum (una specie di polizia stradale per debellare sul nascere furti e saccheggi), abbellì e ricostruì chiese e basiliche e frenò la potenza di alcuni signori che si ritenevano padroni di Roma e delle vicine città degli Stati pontifici e superiori alle stesse leggi. Ovviamente per questa sua politica si avvalse dei parenti della sua potente famiglia - i Colonna - che ben presto divennero ancora più potenti e i cui elementi fece unire in matrimonio con altre potenti famiglie dei vari territori pontifici.

Anche Martino V è stato accusato di sfacciato nepotismo, lo stesso Pastor lo ritiene meritevole di biasimo. Ma bisogna anche dire che Martino nel voler restaurare l'autorità e l'ordine, si affidò ai suoi parenti perchè non si fidava di altri, e che quindi questo nepotismo era probabilmente necessario. Tanto più che lui personalmente disdegnò il lusso e lo splendore, "teneva una corte meschina nel palazzo dei SS. Apostoli senza circondarsi di "teatrale magnificenza" (Gregorovius).
Ma non si fermò solo nelle opere esteriori, anche in quelle religiose, Martino V seppe ravvivare il sentimento evangelico. Nel 1423 indisse il quinto giubileo traendo lo spunto che erano passati 33 anni (età di Cristo) da quello precedente del 1390. Questo lo si fece con meno splendore e meno affaristico di quello, grazie anche al predicatore Bernardino da Siena che tenne per ottanta giorni prediche in ogni angolo di Roma che ravvivarono la devozione al culto delle sante reliquie, alla devozione dell'Eucaristia, e mettendo al bando quegli oggetti pagani che facevano venir meno alla fede.
Ci furono nell'occasione anche molto zelo. Narra l'Infessura segretario del Senato che "fu eretto in Campidoglio un immenso rogo di carte da gioco, biglietti del lotto, istrumenti musicali, capegli falsi ed altrettanti ornamenti muliebri".
Mentre si accingeva a quest'opera di un ritorno dell'autorità papale, Martino ebbe comunque degli assalti a questa sua supremazia, che gli vennero soprattutto dal clero francese, privato da antichi diritti di benefici e giurisdizioni. Stava serpeggiando insomma un clima di disobbedienza, ma Martino resistette alle forti pressioni , anche se non ebbe più tempo di reagire con fermezza.
Non dimentichiamo che in questo periodo in Francia vi erano i burrascosi rapporti con l'Inghilterra, e che la stessa terra francese stava rischiando di diventare una provincia inglese. Si salvò dal naufragio grazie all'eroica pastorella di Domremy (Giovanna d'Arco), anche se poi la Francia nei suoi confronti fu ingrata e l'abbandonò nelle mani dei suoi nemici; nè mossero un dito (anzi la rinnegarono) quando questi divennero i suoi carnefici mandandola sul rogo. La "pulzella d'Orleans" si era appellata al pontefice, ma i suoi giudici e i suoi carnefici - insieme - non diedero corso a quell'appello (anche se 24 anni dopo fu poi proclamata martire della fede, della patria e del suo re).
Purtroppo quando Giovanna salì sul rogo (29 maggio 1431), Martino avrebbe potuto fare ben poco per la martire, era sceso nella tomba da oltre due mesi, il 20 febbraio 1431da un attacco aploplettico all'età di 63 anni colpito, dopo 14 anni di pontificato.
Ebbe degna sepoltura in S. Giovanni in Laterano, con rimpianto grande e sincero del popolo e del clero romano: Nel suo monumento funebre spicca una epigrafe dettata dall'umanista Antonio Loschi, la quale lo designa "temporum suorum felicitas". Per nulla gratuita ma meritata.
Il Platina scrisse "...singolare sovrano, uomo di acuto intelletto, saggio e risoluto politico, gli è sempre un merito indiscutibile, che dopo tempi di gravissimi scompigli ponesse con mano ferma la base su cui rialzare l'autorità spirituale e civile dei papi; è merito suo aver lasciato, morendo, alla Città Eterna l'antico splendore, allo Stato pontificio la sua grandezza, alla Chiesa l'età d'oro della pace".

Nei mesi precedenti alla sua morte, Martino, si stava preoccupando del Concilio di Basilea che lui stesso aveva indetto per il luglio 1431. Ed infatti poco prima di morire il 1° gennaio 1431 aveva nominato presidente di quell'assemblea il cardinale Cesarini, conferendogli anche il potere di trasferirla ad altra sede se lo avesse ritenuto opportuno per un sereno svolgimento delle sedute.
Questo Concilio in omaggio alle decisioni del concilio di Costanza, e che doveva procedere alla riforma della Chiesa, era stato indetto nel 1423 a Pavia; ma essendo in questa città quell'anno scoppiata la peste, il concilio era stato trasferito a Siena; ma dopo poche ed agitate sedute, avendo visto il Pontefice che da molti prelati si cercava di menomare l'autorità del Capo della Chiesa, il concilio, nel febbraio del 1424, era stato sciolto e ne aveva convocato un altro che doveva esser tenuto a Basilea sette anni dopo. Appunto in quest'anno della morte del pontefice. E che si tenne regolarmente dopo l'elezione del suo successore.

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