PIANETA GRATIS

I PAPI

SEI QUI: Home - Canale Religione - I PAPI - Urbani VI

URBANO VI, Bartolomeo Prignano (Na)
(1378-1389)

Morto il 27 marzo Gregorio XI, la sera del 7 aprile del 1378 si riunì in Vaticano il conclave per procedere all'elezione del nuovo Pontefice. La piazza di S. Pietro era gremita di popolo tumultuante, che al passaggio dei cardinali gridava: Romano lo volemo od almanco italiano. Dei ventitré cardinali che formavano il sacro collegio sei erano rimasti ad Avignone ed uno si trovava al congresso di Sarzana; sedici soltanto partecipavano quindi al Conclave e di questi solo quattro erano italiani, i romani Francesco Tebaldeschi e Giacomo Orsini, il fiorentino Pietro Corsini e il milanese Simone da Brossano. 
Tutti gli altri erano francesi. Giustificata era pertanto l'eccitazione del popolo, il quale temeva che fosse eletto uno straniero e la sede papale venisse trasferita nuovamente fuori d'Italia. Né il popolo si limitò ad esprimere i suoi desideri con le alte grida. Si precipitò minaccioso dentro il palazzo, vi tumultuò per circa un'ora; poi una quarantina di persone volle visitare ogni angolo per assicurarsi che non vi fossero nascosti armati destinati a far violenza ai porporati; infine due banderali, presentatisi ai cardinali, esposero il desiderio della cittadinanza romana, che reclamava un Pontefice italiano e voleva che a Roma rimanesse la sede del Papato. 

Impressionato dal tumulto, il sacro collegio fu concorde nell'elezione di un italiano; ma non voleva far cadere la scelta sui due romani sia perché il Tebaldeschi era troppo vecchio e l'Orsini troppo giovane, sia per non mostrare di aver ceduto alle imposizioni del popolo, né voleva eleggere il Corsini o il Da Brossano perché l'uno era di una città in guerra con la Chiesa, l'altro suddito dei Visconti, nemici del Papato. 
Non restava che scegliere una persona estranea al sacro collegio. Fu fatto il nome dei napoletano Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, vicecancelliere della Chiesa, che per esser suddito degli Angioini poteva riuscire accetto agli Italiani e ai Francesi e il giorno dopo (8 aprile) fu eletto con quindici voti. 
Il popolo tumultuava ancora nella piazza. Quando seppe che l'elezione era avvenuta, credendo che il nuovo Pontefice fosse un romano, sfondò le porte per andare ad adorarlo, i cardinali impauriti, credendo quella la rivolta dei romani, vestirono in fretta con il manto e la mitra il Tebaldeschi, lo misero sul soglio, poi fuggirono. 
Quando si seppe che il cardinal Tebaldeschi non era il vero Papa il popolo ricominciò a tumultuare, ma poiché il Pontefice era un italiano non fu difficile far tornare la calma negli animi. Avuta dal sacro collegio la conferma della sua elezione, l'arcivescovo di Bari accettò la dignità pontificia e, prese il nome di papa URBANO VI. Fu con grande solennità consacrato il 18 aprile, giorno di Pasqua. 
Scrive l'Orsi: «Per disgrazia della Chiesa Urbano VI era l'uomo meno adatto per governare in mezzo a tante tensione di animi ed a tante discordie, il suo carattere orgoglioso, i suoi modi duri ed alteri non tardarono ad alienargli quasi tutta la corte. Fin dal suo primo concistoro rimproverò aspramente i cardinali dicendo che da essi doveva cominciare la riforma della Chiesa; ordinò loro di diminuire la pompa nelle loro comparse e di abbandonare il lusso, che sfoggiavano, per ritornare alla semplicità di vita dei primi tempi apostolici. Meritati erano questi rimproveri, ed Urbano VI poteva farli, poiché dava esempio di austerità; ma nel modo come lo faceva, invece di riuscire a correggere i cardinali, serviva solo ad inasprirli contro di lui. Ed egli, irritato per l'opposizione che incontrava diventava ancora di più intollerabile: un giorno poi si lasciò sfuggire di bocca che aveva intenzione di creare molti nuovi cardinali italiani in modo che il loro numero oltrepassasse quello dei francesi; e questo aumentò il fermento dei cardinali francesi" (Orsi)
Questi trascorsa la primavera, si trovarono ad Anagni, dove, secondo le disposizioni di Gregorio XI, avevano preparato gli alloggi per passarvi l'estate, e qui strinsero rapporti con il conte Onorato Caetani di Fondi, il quale, essendo nemico di Urbano V perché gli aveva negato il rimborso di mille fiorini prestati al precedente Papa e destituito dalla carica di rettore della Campagna per darla a Tommaso di Sansevermo, istigò i cardinali contro il pontefice.

Gli incitamenti del Caetani erano quasi superflui, perché i cardinali francesi pensavano già al modo di disfarsi di Urbano VI e quando furono invitati a stabilirsi a Tivoli dove il Papa si era recato a villeggiare con tre cardinali italiani (il Tebaldeschi, infermo, era rimasto a Roma) si rifiutarono preparandosi alla lotta.
 Infatti si assicurarono la fedeltà del comandante di Castel Sant'Angelo, che era un francese, si procurarono l'alleanza di Francesco da Vico, ed assoldarono e fecero venire ad Anagni la Compagnia dei Brettoni (i reduci della strage di Cesena potevano essere utili!)

Ai questi cardinali dissidenti non poteva naturalmente mancare il favore del re di Francia; ma non mancò neppure, quello della regina Giovanna di Napoli. Questa rimasta vedova una terza volta, aveva nel 1376 sposato Ottone di Brunswich sperando di avere da questo quarto matrimonio un erede cui lasciare il trono che diversamente sarebbe toccato a Carlo di Durazzo, nipote dell'omonimo duca perito al convento del Murrone nel 1348. 
Urbano VI che favoriva i Durazzo si era attirato l'odio di Ottone e della regina Giovanna.
Forti per tanti appoggi e specialmente per la famigerata Compagnia di ventura al loro soldo, i cardinali francesi partirono in aperta lotta il 20 luglio del 1378 scrivendo ai cardinali italiani una lettera in cui contestavano la validità dell'elezione di Urbano, avvenuta a loro dire, sotto la pressione del popolo, e invitandoli a recarsi ad Anagni per prendere decisioni.

Di fronte a quell'attacco, il Pontefice affrettò la pace con i Fiorentini, che venne conclusa come si è detto, otto giorni dopo quella lettera, e, dichiaratosi pronto a sottomettere al giudizio di un concilio la legittimità della sua elezione, mandò i tre cardinali italiani a trattare con i francesi. Questi però si rifiutarono di venire ad un accordo e il 9 agosto dichiararono nulla l'elezione di Urbano, imposero a questo di deporre la tiara e proclamarono vacante la sede papale; poi si trasferirono a Fondi dove invitarono i cardinali italiani ad un conclave per l'elezione del nuovo Pontefice.
In quei giorni cessava di vivere il cardinale Tebaldeschi, l'unico dei quattro cardinali italiani rimasto fedele al Pontefice; gli altri tre lasciarono Roma e se ne andarono prima a Vicovaro, poi a Subiaco e sul finire di agosto a Sezze. Abbandonato da tutti, Urbano VI, nel settembre di quell'anno creò ventinove cardinali tutti italiani. Questo fatto inasprì maggiormente i cardinali francesi, che, il 21 di quel mese, riunitisi in conclave a Fondi, elessero Pontefice il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di CLEMENTE VII. I tre cardinali italiani, che erano stati invitati con la promessa che fra loro sarebbe stato scelto il Papa, assisterono al conclave, ma non presero parte alla votazione, dopo la quale si ritirarono a Tagliacozzo. Invano Santa Caterina li pregò di tornare all'ubbidienza di Urbano VI; essi preferirono rimaner neutrali; ma morto, l'anno dopo, il cardinale Orsini, gli altri due passarono dalla parte di Clemente.
Lo scisma divideva la Cristianità in due campi: per Clemente VII si schierarono la regina di Napoli, la Francia e la Savoia e più tardi i regni di Castiglia, d'Aragona e di Scozia; per Urbano VI le altre parti d'Italia, il Portogallo, l' Ungheria, l'Inghilterra e la Germania. Carlo IV lo riconobbe per primo fra gli altri sovrani e, morto lui il 29 novembre del 1378, il figlio Vinceslao, che gli successe, continuò nell'obbedienza di Urbano. Il quale, lanciata la scomunica al suo antagonista, convinto che le armi spirituali a nulla avrebbero giovato, assoldò una compagnia di ventura. 
Era, questa, chiamata di SAN GIORGIO ed era composta tutta di Italiani. La comandava un romagnolo: ALBERICO da BARBIANO che aveva militato con Roberto di Ginevra e sotto i Visconti; giovane audace e valoroso, che aveva riunito sotto la sua bandiera molti di quegli Italiani, i quali allettati dai guadagni dei soldati di ventura o costretti a vivere in esilio, lontani dalle loro città, avevano abbracciato la carriera delle armi. 

Lo scisma pertanto assumeva carattere nazionale in Italia, dove il francese Clemente VII affidava se stesso all'aiuto di mercenari stranieri, mentre l' italiano Urbano VI chiamava a sostenere la propria causa un italiano condottiero di Italiani. 
La Compagnia di San Giorgio iniziò la sua vita guerresca con un trionfo clamoroso che rappresentò la prima pagina della storia delle compagnie di ventura italiane: il 28 aprile del 1379, a Marino, nelle vicinanze di Roma, dopo una furiosa battaglia durata cinque ore, Alberico da Barbiano sconfisse sanguinosamente la Compagnia dei Brettoni. Dopo la vittoria egli entrò trionfalmente a Roma fra il tripudio della popolazione e ricevette in dono dal Papa una bandiera col motto Italia liberata dai barbari. 

Quel giorno stesso il governatore francese di Castel Sant'Angelo consegnò la fortezza ad Urbano, e i Romani si sfogarono sulla Mole Adriana danneggiandola gravemente. La lotta contro l'antipapa, così felicemente iniziata, proseguì con grande slancio e in pochi giorni tutto il Lazio cadde in potere di Urbano VI. 

Clemente VII riparò a Napoli il 28 maggio e ricevette festose accoglienze dalla corte angioina; ma i napoletani, che fiancheggiavano per l'altro Pontefice loro concittadino, tumultuarono e Clemente, atterrito, fuggì a Gaeta dove poi s'imbarcò per la Francia. Il 10 giugno egli giunse a Marsiglia e di là si recò ad Avignone, che, abbandonata trentatre mesi prima dai Pontefici, ora diventava la sede degli antipapi.
Se le guerre di signori e di papi erano finite, ora iniziavano i tumulti di popolo in due grandi città.
A Firenze (quella dei Ciompi) e a Venezia (la guerra con Chioggia).
su questi fatti - nei dettagli - vi rimandiamo alle pagine di Storia d'Italia > >
Già fin dal marzo del 1380 Urbano VI e i Fiorentini avevano cercato di metter fine alla guerra e a Cittadella avevano avuto luogo conferenze tra gli ambasciatori dei belligeranti e dei mediatori; ma non si era concluso nulla. Nell'estate del 1381 offerse la sua autorevole mediazione Amedeo VI di Savoia, che tutti accettarono. 
Terminata o quasi le dispute nel nord Italia, nello stesso anno sono già in gestazione quelle al Centro e al Sud d'Italia. E' il periodo di papa URBANO VI, del Regno di Napoli e nuovamente dei Visconti nel settentrione.
Urbano VI non aveva dimenticato che la regina Giovanna aveva ospitato in Napoli Clemente VII e lo aveva riconosciuto come papa legittimo, e meditava di punire questa sovrana che, vassalla della Chiesa, aveva osato schierarsi contro il vero capo di essa. Il 21 aprile del 1380, mentre era in corso la guerra di Chioggia, il Pontefice, dichiarata Giovanna I scismatica ed eretica, la deponeva dal trono, scioglieva i sudditi di lei dal giuramento di fedeltà e le bandiva contro la crociata. 
Urbano VI però sapeva che a nulla valevano le armi spirituali e non potendo muovere direttamente contro Napoli per la situazione in cui lo stato pontificio si trovava dopo la rivolta, tentò di spingere contro la regina un potente nemico. Era questi Carlo di Durazzo, ultimo dei discendenti di Carlo d'Angiò, educato nella corte di re Luigi d'Ungheria all'odio contro Giovanna I, giovane audace ed ambizioso, cui non pareva vero di cingere la corona di quel regno alla quale aveva diritto. Il Durazzo si mosse subito.
Il Papa riuscì nel suo intento, agevolato dalla stessa regina di Napoli, che il 29 giugno del 1380, per procurarsi un valido aiuto contro la Santa Sede e il nipote, adottò come suo successore il duca Luigi d'Angiò, fratello del re Carlo V di Francia, invitandolo a scendere in Italia e facendo confermare l'adozione da Clemente VII. Partito da Treviso raggiuanta e lasciata la Toscana, Carlo di Durazzo si pose in cammino alla volta di Roma, dove, vi giunse nel novembre. Il Papa gli fece lietissime accoglienze, lo creò senatore e gonfaloniere della Chiesa e si fece promettere che al proprio nipote Francesco Frignano, detto Butillo, avrebbe concesso i feudi di Capua, Amalfi, Nocera ed altre terre dal Napoletano. 
Carlo si trattenne a Roma circa sette mesi e solo nei primi di giugno del 1381 si decise a marciare verso il reame di Napoli, approfittando della morte di Carlo V di Francia, che tratteneva oltre le Alpi Luigi d'Angiò rimasto tutore del dodicenne nipote Carlo VI. L'impresa a cui s'era accinto non presentava gravi difficoltà: gran parte della popolazione parteggiava per lui; le casse dell'erario esauste non permettevano alla regina di assoldar mercenari e la difesa del regno era affidata a poche truppe sotto il comando del quarto marito di Giovanna, Ottone di Brunswich, che non poteva costituire un serio ostacolo. Senza quasi adoperare le armi , il 16 luglio entrò in Napoli.
Giovanna I, all'avvicinarsi del nemico, si era chiusa in Castel dell' Ovo e qui rimase assediata per oltre un mese sperando di esser liberata dal marito. Il quale tentò il 24 agosto di scacciare da Napoli l'usurpatore, ma non ebbe fortuna: le sue truppe vennero sbaragliate, il marchese del Monferrato, suo pupillo, che gli combatteva al fianco, ucciso ed egli stesso fatto prigioniero. Quel giorno medesimo la regina capitolò e fu mandata nel castello di Muro in Basilicata; Carlo di Durazzo, rimasto padrone del reame, fece venire in Napoli i figli e la moglie Margherita. 
Ma i successi di Carlo di Durazzo non lasciarono indifferente Luigi d'Angiò. Stimolato da Clemente VII, che gli fornì denari, lo nominò capitano della Chiesa e al principio del 1382 lo incoronò ad Avignone re di Napoli. Si preparò a scacciare il rivale dal reame e cominciò col sottomettere al suo dominio i possessi angioini della Provenza, mentre il Durazzese, avuta notizia della spedizione che si stava approntando in Francia, nel maggio di quell'anno, faceva assassinare la regina Giovanna.
Luigi d'Angiò passò le Alpi alla testa d'un esercito che alcuni fanno ascendere a quarantamila cavalieri. In Piemonte si unì a lui Amedeo VI di Savoia, partigiano dell'antipapa, che aveva accresciuti i suoi domini con i territori di San Germano, Santhià e Biella, ed ora veniva in possesso di Cuneo e riceveva da Luigi la cessione dei suoi di-ritti sulle terre angioine di qua dalle Alpi. In Lombardia ebbe aiuti e libero passaggio da Bernabò Visconti che con lui aveva iniziato trattative per combinare un matrimonio tra la figlia Lucia e Luigi Il, figlio del duca. Di là l’Angioino proseguì per le Romagne e le Marche e il 13 luglio del 1382 entrò in Aquila, dove vennero a fargli atto d’omaggio i rappresentanti di alcune nobili famiglie del reame napoletano quali quelle dei Sanseverino e dei conti di Tricarico, di Matera, di Conversano e di Caserta.
Carlo di Durazzo, che, avendo al suo soldo le compagnie di Alberico da Barbiano e dell’Acuto, disponeva di circa quattordicimila cavalieri,, coi quali era in grado di contendere tendere il passo al rivale, anziché decidere le sorti del suo regno con una battaglia campale stabilì di difendere le terre fortificate e di lasciar che il clima, le malattie, la penuria delle vettovaglie e il tempo decimassero e stancassero il nemico. Così Luigi riuscì senza gravi difficoltà a spingersi nella Terra di Lavoro e nelle Puglie, ma vide a poco a poco il suo esercito logorato da una noiosa guerriglia, da sfibranti assedi di piccoli castelli e da un’epidemia che doveva troncar la vita ad uno dei suoi più illustri sostenitori: il Conte Verde.

Amedeo VI morì a Santo Stefano di Puglia nel marzo del 1383. Aveva soli quarantanove anni; godeva meritata fama di uomo serio e generoso; prode nelle armi, aveva con successo combattuto contro i Turchi, contro i Bulgari e i Visconti; dotato di larghe vedute, aveva opportunamente abbandonato le mire sui territori transalpini dedicando la sua attività a ingrandire i suoi domini in Piemonte e dando così un chiaro indirizzo alla politica della sua Casa; pur rivolgendo i suoi maggiori sforzi ad estendere i suoi possessi, si era curato di difendere il trono dei Paleologhi suoi congiunti e di metter pace tra Genova e Venezia ed ora seguiva Luigi d’Angiò in una impresa che poteva procurargli vantaggi e sognava pure nelle arse terre di Puglia, fare poi una spedizione in Terrasanta, quando l’epidemia che mieteva numerose vittime nell’esercito angioino venne a troncargli la vita.. La sua salma fu portata in Savoia e sepolta con pompa nel mausoleo di famiglia dell’Abbazia di Altacomba.

Morto il Conte Verde, le schiere ch’egli aveva condotte nell’ Italia meridionale se ne tornarono in Piemonte e Luigi d’Angiò si vide costretto a rivolgersi per aiuti al nipote CARLO VI di Francia che fece allestire un esercito mettendolo sotto il comando del famoso condottiero ENGUERRANDO di COUCY. Questi mosse verso l'Italia l’anno dopo. Nel settembre del 1384, giunto in Toscana, penetrò a viva forza ad Arezzo che si era data come si è visto a Carlo di Durazzo, e si disponeva a scendere verso il reame di Napoli quando gli giunse la notizia che LUIGI d’ANGIÒ era morto a Bisceglie, presso Bari. Allora Enguerrando vendette Arezzo a Firenze e se ne ritornò in Francia.

La morte del suo rivale rialzò le sorti di Carlo di Durazzo; ma già da un anno un altro nemico si era levato contro di lui: lo stesso Pontefice. URBANO VI NON era per nulla contento di Carlo perchè indugiava a dare a Francesco PRIGNANO i territori promessi, e nella primavera del 1383 era, partito da Roma alla volta di Napoli e, irritato di essere stato guardato a vista dai soldati del sovrano, approfittando dell’assenza di Carlo, recatosi in Puglia, si era trasferito al castello di Nocera, che dal re a quel tempo era stato finalmente ceduto al nipote del Pontefice.

Dopo la morte di Luigi d’Angiò i rapporti tra Urbano e Carlo divennero ancor più tesi: si narra che, invitato a stabilirsi a Napoli, il Papa rispondesse "non dovere i Pontefici recarsi alla corte dei re, ma semmai questi dovevano ad inginocchiarsi ai piedi dei Papi".
 Urbano VI rimase a Nocera, sospettoso della condotta del sovrano e dei suoi stessi cardinali. Egli temeva che Carlo avesse segrete pratiche con alcuni suoi cardinali per abbatterlo. Ne ebbe la certezza nel gennaio del 1385 quando, ne fece arrestare sei, e ottenne con la tortura da uno di essi la confessione della congiura. Allora scomunicò Carlo, la regina Margherita e i figli, che dichiarò decaduti dal trono, e lanciò l’interdetto su Napoli.

Per tutta risposta Carlo di Durazzo proibì che si osservasse l' interdetto e mandò ALBERICO da BARBIANO, che aveva creato gran contestabile del regno, ad assediare il papa a Nocera. Ogni giorno secondo quello che narrano le cronache del tempo il Pontefice si affacciava tre o quattro volte ad una finestra del castello e anche al lume di un cero al suono d’una campanella scomunicava gli assedianti, che aspettavano di fargli la festa visto che sul suo capo era stata messo una taglia di diecimila fiorini d’oro.

Sei mesi durò l’assedio e quando la città fu presa, Urbano VI continuò a resistere nel castello. A liberarlo andarono REMONDELLO ORSINI e TOMMASO di SANSEVERINO, fautori del defunto Luigi d’Angiò ed ora, in odio a Carlo, erano diventati partigiani del Papa. I due con tremila cavalieri, e avanzi dell’esercito angioino, diedero l’assalto agli assedianti e li costrinsero ad allontanarsi da Nocera, poi fecero uscire il Pontefice, che a sua volta condusse con sé i sei cardinali prigionieri suoi però. Urbano VI, non fidandosi delle schiere francesi che lo avevano liberato, le licenziò; trattenne solo un certo numero di mercenari italiani e tedeschi con la scorta e con questa andò a Benevento; di là passò nella Puglia ed essendo su queste coste giunte dieci galee genovesi mandategli dal doge Antoniotto Adorno, fece vela per Messina e poi per Corneto e infine per Genova dove giunse il 23 settembre del 1385 e dimorò fino al dicembre dell’anno seguente. Durante il suo soggiorno genovese cinque dei cardinali prigionieri, avendo tentato la fuga, furono messi a morte; il sesto, salvatosi per intercessione del re d’Inghilterra, passò ad Avignone presso l’antipapa.

Mentre Urbano VI sbarcava a Genova, Carlo di Durazzo, lasciato il governo alla moglie Margherita, si imbarcava a Manfredonia diretto in Ungheria. Qui, l'11 settembre del 1382, dopo quarant’anni di regno era morto il re Luigi e la corona era stata data alla giovane figlia Maria sotto la tutela della madre Elisabetta; ma, essendo il governo di queste due donne divenuto odioso, era stato chiamato Carlo di Durazzo, che in Ungheria godeva molto favore per esservi cresciuto e per aver più volte capitanati gli eserciti del regno.

Giunto in Ungheria, Carlo fu riunita una dieta ad Albareale, e proclamato re. Le due regine finsero di rassegnarsi alla volontà della nazione, ma decisero di ricuperare il trono e di sopprimere colui che consideravano usurpatore. Il 7 febbraio dal 1386 Carlo, invitato dalle due donne, si recò senza sospettare di nulla nel loro palazzo, dove fu assalito da alcuni sicari e gravemente ferito. Condotto in una prigione di Visgrado, morì avvelenato quattro mesi dopo, il 3 giugno del 1386.

Carlo di Durazzo lasciava due figli: Giovanna e Ladislao. Quest’ultimo fu proclamato re e, poiché era appena decenne, fu messo sotto la reggenza della madre Margherita. Ma questa non era dotata di quell’energia che occorreva per governare saldamente un reame in cui forte era il partito del ramo angioino di Francia; molti i malcontenti, non pochi quelli che desideravano un rivolgimento politico per poter pescare nel torbido. All’ordine subentrò l’anarchia; Napoli elesse magistrati propri (Consiglio degli Otto del buon governo) che subito vennero a conflitto con l’autorità regia. 
Il partito angioino, capitanato da Tommaso di Sanseverino ed Ottone di Brunswich, proclamò re LUIGI II d’ANGIÒ, figlio del morto duca, sotto la reggenza della madre Maria; la capitale venne occupata nel 1387 dai fiancheggiatori degli Angioini e la regina Margherita, che con i suoi familiari si era chiusa dentro Castel dell’ Ovo, fu costretta a riparare a Gaeta.

Urbano VI aveva lasciato Genova nel dicembre del 1386 ed era andato a Lucca. Non si era pronunciato in favore di nessuno dei due competitori e voleva trarre profitto dall’anarchia del reame di Napoli, in cui due re fanciulli sotto la reggenza di due donne si facevano la guerra; che gli era utile, questo avrebbe permesso di dare la corona a suo nipote FRANCESCO PRIGNANO. 
Per nove mesi Urbano VI si trattenne a Lucca, poi quando seppe che Francesco da Vico era stato ucciso dai Viterbesi, i quali erano tornati all’obbedienza della Chiesa, andò a Perugia, che, dilaniata dalle lotte delle fazioni dei RASPANTI e dei MICHELOTTI, anche questa città si diede al Pontefice.

Tutto invaso dall’idea di impadronirsi del reame di Napoli, Urbano credeva di potere sfruttare per i suoi disegni l’anormale situazione della Sicilia. FEDERICO III era morto fin dal 1377, lasciando sul trono la figlia MARIA sotto la reggenza di ARTALO d’ARAGONA; ma questa era rimasta nell’isola solo cinque anni: andato a monte, per opera del re Pietro IV d’Aragona il matrimonio che era stato progettato tra lei a GALEAZZO VISCONTI; la donna era stata condotta in Sardegna e di là in Catalogna, dove, nel 1390, doveva sposare Martino II. 
La Sicilia era rimasta in balia dei suoi baroni. Il Pontefice la reclamò come feudo della Chiesa, ma poi mitigò le sue pretese -anche perché non poteva pretender nulla con la forza, non avendola- e si limitò a chiedere aiuti ai feudatari per la sua impresa nel Napoletano.

Nell’agosto del 1388 Urbano VI si mosse da Perugia alla testa di quattromila lance; ma la spedizione fu troncata già sul principio da un grave accidente occorsogli: a Narni per una caduta da cavallo si ruppe una gamba e dovette abbandonare l’impresa e tornare a Roma dove giunse nel principio dell’ottobre. Qui tolse il governo ai banderesi e ristabilì la sua autorità. In compenso della sottratta libertà, il Pontefice promise ai Romani che il Giubileo, anzichè nel 1400, sarebbe stato celebrato dieci anni prima, cioè nel 1390;
ma egli non riuscì a vederlo: morì pochi mesi dopo, il 15 ottobre del 1389.Le maggiori critiche fatte al suo pontificato, furono quelle di essersi comportato come un monarca assoluto, mai disposto al perdono, che gli alienò l'appoggio di molti cardinali della Curia. Privo di questi sostegni, divenne sempre più nevrotico, e vedendo una congiura in ogni angolo, sempre più insicuro (per questo cambiava continuamente residenza).
La morte di Urbano VI non fece cessare lo scisma; anzi subito i cardinali si affrettarono a dargli un successore.

 TORNA INDIETRO

 

©2006 Pianeta Gratis - Pianeta Gratis web Tutti i diritti riservati.