Alla morte di Urbano V avvenuta il 19 dicembre 1370, i cardinali del Sacro Collegio si radunarono in Avignone per dargli un successore. Erano quasi tutti francesi solo due-tre erano italiani e uno inglese.
Si erano riuniti il 29 dicembre, ma bastò una sola seduta al conclave per decidere il nome. Il 30 dicembre elessero Pietro Roger, dei conti di Belfort, diacono di Santa Maria Nuova.
Era nipote di Clemente VI, e proprio dallo zio aveva ricevuto molti benefici fin dalla giovane età, infatti da lui aveva ricevuto circa 20 anni prima la porpora cardinalizia a soli 18 anni. Tuttavia pur con questi e altri benefici, volle rimanere sempre diacono, cosicchè ricevuta la nomina bisognò crearlo e consacrarlo prima sacerdote e poi vescovo. La cerimonia avvenne il 4 gennaio del 1371, e il giorno successivo seguì la sua consacrazione a papa col nome di GREGORIO XI.
Era giovane, non contava ancora quarant'anni, ma era di costituzione debole, sempre con un pallore mortale in viso, e il suo pontificato che si presumeva lungo durò invece solo otto anni, fino al 1378.
Era un francese, e quindi come i suoi predecessori, quando iniziò a distribuire benefici o a elevare i suoi collaboratori, alla porpora cardinalizia si comportò come quelli: i beneficiati erano tutti francesi, e fra questi - con il solito nepotismo - molti erano i suoi parenti.
E se c'era qualche ottimista che pensava di un ritorno a Roma della Sede Papale, dovette subito diventare un pessimista.
Eppure, fin dall'inizio sconcertò i suoi elettori, annunciando che aveva intenzione di far un ritorno a Roma; addirittura fissò perfino la data: maggio del 1372.
Più cose contemporaneamente fecero ritardare questo progetto.
Francia: C'era la guerra in corso della Francia con l'Inghilterra e il re francese aveva bisogno dell'appoggio del papa, in male avendo in mano il potere spirituale (quindi le scomuniche a portata di mano), in bene perchè Gregorio XI poteva essere un mediatore per arrivare con gli inglesi a una pace non ingloriosa. Ma non servì a nulla la presenza del papa ad Avignone.
Germania: Carlo IV, pur essendo lui stesso incoronato a Roma dal suo predecessore (che poi abbandonò per far ritorno in Germania) aveva di sua iniziativa lui e i suoi principi fatto incoronare ad Aquisgrana suo figlio quindicenne Venceslao. La curia avignonese fece presente che non aveva validità perchè mancava l'approvazione del papa, ma quello ingarbugliò così bene le sue carte, che riuscì ad ottenere da Gregorio una ratificazione dell'elezione. E anche qui la dignità di un papa fu scossa. Avignone contava nulla.
Oriente: La visita in Italia dell'imperatore Paleologo quand'era in vita ancora Urbano V, per sollecitare una crociata contro i turchi, era già finita in un fallimento clamoroso prima ancora di iniziare, e con Gregorio non se ne parlò più. Da Avignone gli appelli non erano stati raccolti da nessuno. Altro fallimento della Santa Sede abignonese.
Per questo e altri motivi, il fallimento dell'operato di Gregorio era dunque piuttosto palese. Il desiderio di andarsene da Avignone si rifece strada. Ma non è che in Italia le cose erano a suo favore. Per il mondo laico il ritorno del papa ad Avignone era quello che voleva per poter i potenti signori e le compagnie di ventura spadroneggiare negli Stati Pontifici. Mentre il mondo cristiano da quando Urbano aveva lasciato Roma per far ritorno ad Avignone, era rimasto indignato, si sentirono abbandonati al loro destino. Se ci fosse stato ancora il sagace e genialoide Albornoz, forse avrebbero avuto qualche opportunità per recuperare i territori selvaggiamente saccheggiati, ma il suo sostituto il vicario pontificio Philippe de Cabassoles (francese) , era un inconcludente, in quasi tutti i territori pontifici l'amministrazione pontificia era assente politicamente e militarmente, e in quasi tutte queste città scoppiavano rivolte; insomma non ne volevano più sapere di vicari e inetti funzionari francesi disseminati nello Stato Pontificio che spesso erano accusati di malversazioni e tirannia. Cosicchè, comportandosi così, invece di favorire la causa pontificia, riuscivano ( di riflesso) solo a indisporli verso il papa (Sant'Anonino diceva che il loro era "un dominio di superbi e che erano intollerabili").
«Dopo che la Santa Sede era stata trasferita oltr'Alpe, ad Avignone — scrive Lionardo Aretino — tutte le contrade sottomesse alla Chiesa erano governate da legati francesi. Insopportabile era la loro alterigia nel comandare; essi tentavano di estendere la loro autorità sulle città libere, ed i loro ufficiali e cortigiani non erano uomini di pace, ma di guerra; essi riempivano l'Italia di stranieri, in tutte le città costruivano fortezze con grandissime spese e mostravano con ciò quanto fosse misera e forzata la servitù di queste popolazioni cui avevano tolto la libertà, giustificando l'odio dei sudditi e la diffidenza dei vicini.
Le istigazioni di Firenze non solo trovarono il terreno propizio nel malcontento dei popoli, ma anche nel desiderio che avevano quasi tutti i signori di ricuperare il potere perduto"
Era buon gioco per il Visconti, che attizzavano qui e là rivolte, atteggiandosi a difensori della indipendenza d'Italia. Ad ascoltarlo furono anche i Fiorentini; la repubblica nel luglio del 1375 faceva lega proprio con i Visconti di MIlano, con Bologna, Perugia, Città di Castello, Siena, Lucca, Arezzo e Pisa e altre città pontificie.
A Firenze questo cambiamento di rotta non era avvenuto per caso. Firenze coinvolta in quella guerra che durava da dieci anni, era una città desolata per la carestia e per la peste, che dal marzo all'ottobre dell'anno prima (1374) aveva cagionato la morte di ben settemila persone. Davanti a sé c'era un inverno drammatico. Scarseggiando soprattutto il grano, Firenze si rivolse per averne — come in simili circostanze era solita fare — in Romagna, ma con sua grande meraviglia sentì dire che il cardinale GUGLIELMO di NOELLET, legato pontificio di Bologna, aveva proibito l'esportazione del frumento.
I Fiorentini interpretarono questo divieto come un tentativo del cardinale di affamare la loro città per potersene rendere poi padrone, e si mostrarono molto irritati. E quando i pontifici mandarono in territorio fiorentino la compagnia di ventura guidato da Giovanni Acuto, ebbero proprio questa certezza: che la si voleva prendere per fame. Gli avventurieri però guardavano a chi pagava di più, e i fiorentini offrendogli centotrentamila fiorini se ne tornarono da dove erano
venuti. Ma i fiorentini che avevano sborsato tutto quel denaro deliberarono di vendicarsi, levandosi in armi contro la Santa Sede e facendole ribellare le popolazioni soggette. Ecco perchè si giunse alle alleanze citate sopra. Inalberarono perfino uno stendardo rosso dove c'era scritto in bianco la parola
libertas.
Questo motto era la prova delle intenzioni che avevano i Fiorentini di muovere a ribellione tutte le terre che prestavano obbedienza alla Chiesa. Né questa era impresa difficile, dato l'odio che le popolazioni soggette alla Santa Sede nutrivano per i legati pontifici.
In breve Firenze, divenne l'anima di questo movimento insurrezionale. Non si stancava di inviare incitamenti in altre città. Anche a Roma inviò lettere, vergate dal celebre umanista COLUCCIO SALUTATI, cancelliere della repubblica, nelle quali si esortavano i Romani a sollevarsi, a scacciare la tirannide, a difendere la libertà, a non credere alle promesse dei Papi e a seguire la sentenza di Catone: "Nolumus tam liberi esse quam cum liberis vivere".
Ma Roma, che già da qualche tempo guardava con gelosia l'ingrandirsi di Firenze, non prestò ascolto alle calde parole del Salutati che la invitava ad entrar nella lega. Questo però non era un segno a favore del papa, anzi a Roma persino il basso clero, era stanco di attendere un ripristino dell'autorità pontificia, e si univa ai rivoltosi repubblicani, e già si parlava di farla finita con questo sordo papa avignonese e di nominarne un altro, perchè il papato stava correndo il rischio di rimanere per sempre confinato fuori d'Italia, e che quindi non solo il potere temporale sarebbe andato perduto, ma anche quello spirituale.
Bologna invece non rimase insensibile alle esortazioni dei Fiorentini. La notte dal 19 al 20 marzo del 1376 il popolo bolognese, capitanato da TADDEO degli AZZOGUIDI e da ROBERTO SALICETTI, circondò la fortezza e costrinse il legato a consegnare le chiavi; il gonfalone del comune venne issato al sommo della torre e il giorno dopo fu nominato il Consiglio degli Anziani e concesso il perdono a tutti i fuorusciti, eccettuati soltanto i
Pepoli.
Gregorio XI, ad Avignone fu impressionato dalle notizie che gli giungevano dall'Italia, e pur timoroso di natura, non trovò di meglio che prendere provvedimenti energici. Gregorio XI sapeva che istigatori delle ribellioni erano i Fiorentini e fin dal 3 di febbraio li aveva citati a comparire davanti al suo tribunale, ma avuta notizia della ribellione anche di Bologna e dell'aiuto che i fiorentini le avevano mandato (in denaro, in fanti, in cavalli) il 31 marzo del 1376 lanciò su Firenze l'interdetto e la scomunica. Poi abbandonò le armi spirituali che avevano fatto poco effetto e ricorse alle armi vere.
Gregorio però non si fidava più di Giovanni Acuto che per più soldi aveva cambiato bandiera, ma assoldò la COMPAGNIA dei BRETTONI, forte di seimila cavalli e quattromila fanti, di cui era capo GIOVANNI di MALESTROIT, e, messala al comando del cardinale ROBERTO di GINEVRA destinato a governare la Romagna e le Marche, nel maggio del 1376 la fece scendere in Italia.
Questi Brettoni avevano fama di essere i più feroci venturieri di allora. Certo erano i più spavaldi, come ne fanno fede le parole dette al Papa dal Malestroit, il quale, chiesto se i suoi soldati erano capaci di entrare a Firenze, rispose: se v'entra il sole, vi entreremo anche noi ed aggiunse che entro un mese la città sarebbe stata occupata.
Inoltre il papa diede a Roberto di Ginevra, ai suoi uomini e ai pochi fedeli rimasti la facoltà di confiscare le merci dei Fiorentini, d'impadronirsi dei loro beni e di imprigionarli e venderli come schiavi. Un vero e proprio invito alla rapina.
Le terribile gesta di questi Bretoni e dal Malestroit stesso,
le riportiamo in dettaglio nelle pagine di Storia d'Italia
Mentre Roberto di Ginevra stava accampato presso Bologna, trattative correvano tra il Pontefice e i Fiorentini. Santa Caterina da Siena impegnata a distruggere l'opera nefasta iniziata da Filippo il Bello nel giugno del 1376 si recava ad Avignone e intercedeva presso il Papa in favore della pace esortandolo nello stesso tempo a fare ritorno in Italia. Gregorio XI desiderava vivamente di riconciliarsi con Firenze, che era stata sempre sostenitrice della causa della Chiesa, ma era sdegnato contro gli Otto (della guerra) e ne voleva la deposizione. Non avendola ottenuta, la guerra continuò con nessun vantaggio però delle milizie del Pontefice, il quale, convinto che solo la sua presenza avrebbe potuto estinguere l'incendio della rivolta, deliberò di scendere in Italia dove lo chiamava l'appassionata voce della Santa di Siena. Il re di Francia spedì ad Avignone suo fratello a dissuaderlo dal proposito. Perfino il vecchio genitore ancora in vita lo implorò a non lasciare la sua Patria che l'aveva onorato, fatto papa. E insieme al padre si portarono ad Avignone, la madre e quattro sorelle , che piangendo tentarono alla partenza di sbarragli la strada.
Fu tutto inutile. A parte le accorate lettere di Caterina (ed erano anche queste quasi delle profezie), Gregorio fin dal primo giorno dell'elezione aveva sempre pensato alla singolare e tragica profezia fatta da santa Brigida, a quella "voce" che "se il papa fosse tornato ad Avignone sarebbe morto". Su quella profezia (che si era poi avverata con Urbano a poche settimane dal suo rientro ad Avignone) Gregorio - che era un uomo timoroso- ci rimuginava sempre sopra. Fin dal primo giorno - come abbiamo letto all'inizio, fissando perfino la data - da quella città voleva fuggire.
Finalmente, presa questa volta la grande decisione, Gregorio partì da Avignone il 13 settembre del 1376, diretto a Marsiglia, dove lo attendevano ventidue galee comandate dal Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Si mise in mare il 2 ottobre. Il viaggio fu lento a causa dei venti contrari e delle soste. Undici giorni si fermò a Genova, parecchi altri a Porto Pisano e solo il 5 dicembre toccò
Corneto, dove era sbarcato nove anni prima Urbano V.
Non potendo egli recarsi a Roma per via terra per la ribellione di Viterbo e di Civitavecchia, tornò ad imbarcarsi e si recò ad Ostia, da dove risalì il Tevere e il 17 gennaio del 1377 fece il suo ingresso trionfale da Porta Capena, accolto entusiasticamente dalla popolazione di Roma, che dopo circa settant'anni tornava ad essere la sede del Papato.
Prese residenza in Vaticano (come aveva fatto nel suo breve soggiorno Urbano V) e non in Laterano che da questo momento perse la sede di Pietro.
Ma Roma non era ancora tranquilla, ma più che per questioni politiche e religiose, i molti che si erano arricchiti nel vuoto di potere della "sede vacante", e
avevano esercitato abusi avevano tutto l'interesse nel proseguimento dell'anarchia.
Ci furono alcuni tentativi fatti dal pontefice per riconciliarsi con i territori pontifici; ma non riuscirono. Anzi quelli fatti militarmente peggiorarono la situazione con la zelante repressione fatta a Cesena dal vicario Roberto di Ginevra per dare una esemplare lezione a tutti i rivoltosi di altre città ribelli. Compì una sanguinosa vendetta, una carneficina di quattromila cesenatesi. Un azione che gli valse il titolo imperituro di "boia di Cesena".
Mentre in Toscana, la signoria fiorentina si mostrò strenua sostenitrice degli Otto della guerra, contro cui per la maggior parte era rivolta l'azione di Gregorio XI, e colpì con gravi tasse il clero fiorentino, poi nell'ottobre del 1377 stabilì di non obbedire all'interdetto, di riaprire le chiese ed obbligare, sotto minaccia di gravi sanzioni i sacerdoti a celebrare gli uffici.
Malgrado tutto, la popolazione fiorentina era stanca della guerra che non aveva dato concreti risultati, anzi svuotava le borse e danneggiava il traffico delle merci. Si aggiunga l'apostolato di Santa Caterina, che era andata a Firenze, per favorire la pace e la riconciliazione con la Chiesa.
L'intransigenza degli Otto fu vinta ed essendosi interposto come mediatore addirittura Bernabò Visconti fu indetta una conferenza a Sarzana. Il Pontefice vi mandò come suoi legati il cardinale d'Amiens e l'arcivescovo di Narbona; le città della lega vi inviarono i loro deputati ed anche il re di Francia vi spedì ambasciatori.
Il congresso, presieduto dal Visconti, si aprì il 12 marzo del 1378, ma pochi giorni dopo, il 27, giunse notizia che GREGORIO XI era morto e la conferenza si sciolse.
Gregorio non aveva nemmeno cinquant'anni e avrebbe avuto ancora molto tempo per governare la Chiesa, ma questa volta la profezia era all'incontrario, Caterina gli aveva scritto "venite, venite, venite, non aspettate il tempo che il tempo non aspetta Voi". Lui era andato, ma il tempo che aveva davanti a sè, era improvvisamente volato via e non era riuscito a vedere ciò che gli diceva la santa, che "i lupi feroci vi metteranno il capo in grembo come agnelli".
Tuttavia la sua morte a Roma favorì quel consolidamento della Santa Sede ritornata nella sua sede naturale. Gregorio otto giorni prima cosciente di morire emanò una bolla che autorizzava i cardinali presenti a Roma a procedere subito all'elezione del nuovo pontefice, anche con i 6 cardinali di Avignone assenti.
Non fu un'elezione facile, anzi causò ciò che molti temevano: si favorì una scisma
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