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URBANO V, Guglielmo de Grimoard, francese
(1362-1370)

Morto Innocenzo VI, il 12 settembre 1362, il Sacro Collegio dei cardinali riunito ad Avignone propose come suo successore il fratello di Clemente VI, ma questi rifiutò la tiara. I voti si concentrarono allora su uno stimato monaco benedettino, Guglielmo de Grimoard. 52 enne, abate di S. Vittore a Marsiglia, docente di diritto canonico a Montpellier e nella stessa Avignone, ma non aveva raggiunto ancora la porpora cardinalizia, pur essendo legato pontificio a Napoli.
Era appunto a Napoli, quindi assente da Avignone; ne fece rientro il 6 novembre 1362; nello stesso giorno lo consacrarono papa col nome che lui si era scelto: URBANO V.
Il neo-papa incominciò subito nei primi mesi nel primo dei suoi otto anni di pontificato, a dare disposizioni per riordinare la curia papale, ad abolire alcuni benefici a persone che non li meritavano, e seguendo la linea del suo predecessore era anche lui intenzionato a rivendicare tutti i diritti della Santa Chiesa in Italia (aveva fra l'altro dei personali conti da regolare con un prepotente signore milanese - lo leggeremo più avanti).

Abbiamo detto già nella precedente biografia, che Avignone era ormai diventata un crocevia di persone di affari non sempre leciti. E dove ci sono questi si formano e mettono radici bande rivali che senza scrupoli e con audacia spadroneggiano.

Urbano ad Avignone cominciò a non sentirsi più sicuro e con impazienza aspettava che in Italia il Cardinale Albornoz riuscisse a completare la restaurazione dello Stato della Chiesa; aveva infatti serie intenzioni di sottrarre la Santa Sede alle solite ingerenze del re di Francia. Lui del resto conosceva l'Italia e quindi non era uno di quelli prevenuto come i suoi colleghi francesi.
Purtroppo Albornoz anche se aveva fatto un buon lavoro nel centro Italia, in Toscana e i Emilia, quello in Alta Italia era piuttosto più difficile e complesso. Era riuscito a farsi molti alleati ( Este, Gonzaga, ecc.) ma i Visconti erano un osso duro, questi spadroneggiavano a Milano e infuriavano nel Modenese, nel Bresciano e nel circondario di Bologna.
I Visconti rappresentavano l'ultimo baluardo ghibellino; inoltre non riconoscendo il papa come sovrano temporale, armi in mano, aveva incameratosi beni ecclesiastici.

Ancora con Innocenzo VI, si erano fatti tentativi per una conciliazione; e a Milano uno dei due ambasciatori inviati dal pontefice a Bernabò Visconti, era proprio il cardinale Guglielmo de Grimoard, il futuro papa Urbano V, latore di due lettere pontificie. Incontrato il potente signore milanese sul fiume Lambro; quando gli finirono di leggere le lettere, quello in modo sprezzante chiese loro se volevano mangiare o bere, e alla risposta affermativa fatta sulla prima scelta, fece loro mangiare le due lettere papali. Sarebbe bastato questo episodio per giustificare e spiegare i sentimenti poco favorevoli che Urbano V nutriva per Bernabò. 
Lo stesso mese della sua consacrazione citò il Visconti a comparirgli davanti entro tre mesi e, poiché il signore di Milano non ubbidì all'intimazione, il 3 marzo del 1363 lanciò la scomunica contro di lui.
Il Visconti non era il tipo che temeva una scomunica, fra l'altro da un papa che lui non riconosceva; quindi per altri tre anni mise a soqquadro città lombarde, piemontesi, genovesi e altre senza che l'Albornoz potesse fermarlo con i suoi alleati.
(di questo periodo di lotte, vi rimandiamo alle pagine della Storia d'Italia)

Si era così giunti al 1366, cioè al quarto anno di pontificato di Urbano V, senza che si aprisse uno spiraglio per il suo ritorno a Roma come lui desiderava fin dal primo giorno. Il Petrarca da Venezia il 28 giugno gli inviò un accorato appello di far ritorno presso la tomba degli apostoli. Altro invito accorato lo fece di persona il figlio di re Giacomo d'Aragona, un uomo in odore di santità perchè rinunciando ad ogni bene terreno era entrato nei poverelli dell'Ordine dei frati di S. Francesco.
Queste manovre di voler lasciare Avignone non erano sfuggite nè al clero locale, nè al re di Francia, che, per convincerlo a restare mobilitarono Niccolò Oresme maestro di Carlo V. e che tirò fuori una tesi che dimostrava che la Santa Sede doveva risiedere dov'era, perchè Avignone era il centro della terra. Qualcuno per convincerlo toccò argomenti più prosaici dicendo che a Roma non avrebbe trovato i suoi vini preferiti, il Borgogna e altri prediletti. Al che gli italiani presenti quasi offesi, fecero notare al papa che i vini romani o d'Italia era come bontà pari a quelli francesi, e che comunque se proprio non ne poteva fare a meno, il Tevere era navigabile fin quasi davanti alla sede papale romana, e quindi poteva far venire con una galea tutte le botti di Borgogna che voleva.

Ma Urbano aveva deciso, aveva perfino già dato ordine al suo vicario a Roma di allestirgli l'appartamento nel palazzo pontificio. Non solo a Roma si era sparsa la voce, ma buona parte dell'Italia esultò nell'apprendere la notizia che aspettavano da 60 anni. 23 galee inviate dalla regina Giovanna di Napoli, dai Veneziani, dai Genovesi, dai Pisani raggiunsero Marsiglia per far la scorta al papa nel suo rientro a Roma.
Il 30 aprile 1367, Urbano prese la via di Marsiglia, e qui si imbarcò con tutto il suo seguito (solo tre cardinali francesi si rifiutarono) approdando a Corneto sulla costa laziale il 3 giugno. Ad attenderlo l'Albornoz, tutti i Grandi dello Stato Pontificio, e una moltitudine di popolo, che da giorni e giorni avevano dormito in spiaggia per non perdersi l'avvenimento di una giornata storica. E lo fu veramente, appena giunto a terra Urbano celebrò una toccante messa; l'indomani giorno delle Pentecoste ne celebrò un'altra solenne ricevendo tutti i rappresentanti della città di Roma, poi si diresse a Viterbo dove avrebbe voluto fare una breve sosta prima di raggiungere Roma.
Purtroppo a Viterbo, il cardinale Albornoz, il braccio destro che Urbano aveva in Italia, cessò di vivere, forse colpito dalla peste o da una febbre malarica. Era da quattordici anni che era in Italia (chi dice temuto, chi dice amato) per rimettere un papa sulla cattedra di S. Pietro, e proprio mentre aveva raggiunto lo scopo, non riuscì a vedere il compimento della sua opera.

Solo il 16 ottobre 1367, Urbano si decise ad abbandonare Viterbo per fare il suo trionfale rientro a Roma. Oltre i romani, il clero, i nobili, c'era il Petrarca fuori sè dalla gioia, e proprio lui che non aveva tanta simpatia per i papi, scrisse un panegirico che era un'interminabile compendio di lodi.

Il primo anno romano di Urbano fu molto attivo, impegnandosi a ridare vita a una città da anni in decadenza, le costruzioni di inizio secolo erano pari agli antichi ruderi romani, quelle nuove devastate o svuotate dai saccheggiatori, e le strade da anni senza manutenzione erano diventati degli acquitrini. Urbano da Avignone era a conoscenza che Roma era una città in decadenza, ma quando la vide di persona si rese conto che era una città in disfacimento e a vederla faceva tristezza.
Per porre rimedi, fu infaticabile, forse fu anche troppo zelante a ricostruire chiese e basiliche, a riformare il governo mettendo al posto dei sette eletti dal popolo tre funzionari della Santa Sede, eliminando così quella democrazia che il popolo era convinto di aver ottenuto. Iniziarono i primi malcontenti. I cardinali francesi che Urbano si era portati dietro, non si erano adattati - o forse non volevano- all'ambiente, e si lamentavano delle offese che ricevevano dai romani e questi ricambiavano l'antipatia che quelli avevano per loro.
E loro, ogni volta che aprivano bocca era per rimproverare gli italiani; che in chiesa invece di cantare "belavano" come le pecore, che la musica era cattiva, ogni cosa cattiva, e si lamentarono pure di quel vino che gli italiani avevano decantato tanto ad Avignone e si fecero arrivare le botti da Borgogna.

Nella primavera successiva (1368), scese a Roma l'imperatore Carlo IV per ossequiarlo, ma anche per ricevere sul capo (questa volta da un papa) la corona; ma in questa incoronazione non ci fu come in passato molto entusiasmo. Giocato fu anche il papa, che perso il valido Albornoz, credeva di poter contare su un aiuto militare del tedesco in quelle contrade ancora in fermento. Invece questi presa la corona, risalì in fretta e furia la penisola (e qualcuno insinua che scontrandosi con i ribelli, invece di affrontarli, versò l'obolo per aver via libera per tornarsene in Germania) e lasciò al loro destino gli Stati della Chiesa e lo stesso Urbano che aveva in questo vontagabbana ingenuamente creduto.

All'inizio dell'anno seguente salì invece a Roma l'imperatore d'oriente Giovanni Paleologo, a fare anche lui gli omaggi a Urbano e ad abiurare lo scisma, ma il vero scopo della visita era quello di chiedergli di andare in aiuto al suo impero pericolante ormai quasi tutto in mano ai Turchi, bandendo una crociata. Il pontefice un appello lo fece ma nessuno si mosse, salvo Amedeo VI di Savoia che però arrivò fino a Gallipoli.
In Italia tutti gli Stati erano impegnati a difendersi dalle scorrerie delle compagnie di ventura, che con la massima indifferenza passavano al soldo ora di uno ora dell'altro potente signore per dedicarsi a scorrerie, guerriglie, assalti; per difendersi in casa, nessuno nelle popolazioni cristiane aveva tempo per fare crociate fuori casa.
Nè le avevano in Francia dove si erano in questi anni iniziate le guerre dei cent'anni con l'Inghilterra. E tantomeno in Germania con l'ipocrita Carlo IV e i suoi principi, che dall'Italia erano fuggiti a gambe levate, figuriamoci se andavano i Oriente.

La presa in giro di Carlo IV, la mancanza di un valido condottiero come l'Albornoz, la situazione critica negli Stati della Chiesa, quella sempre più caotica di Roma, dove di riflesso per colpa dei francesi anche Urbano V era malvisto, riempirono di amarezza il pontefice che era sceso a Roma con tanto entusiasmo. Quando poi la stessa Viterbo e poi Perugia e altre città tornarono alle vecchie rivolte, e il Visconti riprese a minacciare le terre pontificie, Urbano prima lasciò Roma per Montefiascone, poi manifestò l'intenzione di tornare ad Avignone. I cardinali francesi zelanti nell'incitarlo fecero presto a tramutare l'intenzione in una vera e propria volontà di abbandonare Roma
A quel punto, i romani tornarono tutti papalini, implorarono il papa di non abbandonarli, lo supplicarono in ginocchio. Poi venne la profezia di santa Brigida. Una "voce" le aveva rivelato che se Urbano fosse tornato ad Avignone sarebbe morto".

«Alle prime voci - scrive l'Orsi- corsero delle sollecitazioni che venivano fatte al Papa, perché non tornasse in Francia, il Petrarca gli scrisse per persuaderlo a rimanere in Italia. Una pia principessa svedese che da vent'anni soggiornava a Roma, Santa Brigida, venne a Montefiascone a manifestare al Papa una rivelazione avuta dalla Vergine, secondo la quale gravi disgrazie lo attendevano se tornava nel luogo dov'era stato eletto.
I Romani gli inviarono un'ambasceria a supplicarlo di rimanere a Roma; ma Urbano non si lasciò smuovere dalla decisione presa, ed il 5 settembre 1370 in quello stesso porto di Corneto, dov'era approdato tre anni prima, si imbarcò con tutta la sua corte sulle navi inviategli dai re di Francia e d'Aragona, dalla regina di Napoli e di Pisa.
Il 16 dello stesso mese sbarcò a Marsiglia ...
il 24 settembre fece il suo solenne ingresso in Avignone. Ma nemmeno due mesi dopo cadde ammalato ed ...
il 19 dicembre dello stesso anno (1370) morì;
sembrava veramente che la profezia di Santa Brigida si fosse avverata, e che il cielo punisse questo nuovo abbandono di Roma (Orsi) ». 

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