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INNOCENZO VI, Stefano Aubert, francese
(1352-1362)

Morto il 5 dicembre del 1352 Clemente VI, i cardinali del Sacro Collegio raccolti in conclave, avendo ormai acquisito una loro certa indipendenza (ormai Avignone era diventata una potenza papale formale e di fatto, spirituale e temporale) si misero in allarme quando seppero che Giovanni il re di Francia si stava portando ad Avignone.
Temendo di doverne subire le influenze, accelerarono i lavori, e dopo pochi giorni, il 18 dicembre dello stesso anno 1352, fecero il nome del cardinale Stefano Aubert della diocesi di Limoges, che fu poi consacrato il 30 dicembre col nome di INNOCENZO VI.
Vescovo di Noyon e Clermont, Stefano Aubert godeva di una buona fama di canonista, come il precedente papa, ma rispetto a quello, questi era un uomo modesto, integro di costumi. Di conseguenza con la sua ascesa al soglio, nella corte avignonese diminuì quel fasto che il suo predecessore aveva promosso e incentivato. Quanto ai benefici che molti - e spesso senza alcun merito - avevano non solo ricevuto ma moltiplicato, ne proibì la cumulazione. E negli stessi uffici ecclesiastici fece una radicale "pulizia" circondandosi di leali e onesti collaboratori degni del loro compito.
Agì insomma da uomo irreprensibile, cosciente dei suoi compiti che erano poi quelli di rendere la Chiesa degna del suo primato e non accusata di essere una "Babilonia" , "madre di dolor" e "per nulla apostolica".
Non cadde nella trappola e non mise in pratica nemmeno un accordo che rischiava di imporsi come un governo oligarchico in seno alla Chiesa. L'accordo era stato fatto dai cardinali che lo avevano eletto e contemplava: di non eleggere altri cardinali del Sacro Collegio; la divisione in parti uguali tra loro dei redditi; il divieto di nominare propri parenti alle cariche importanti. Volevano insomma restare solo loro i "padroni", senza alcun altro inserimento nella loro "congrega", e questo era lesivo al primato assoluto del pontefice.
Dell'autorità assoluta del suo potere Innocenzo VI ne ebbe subito coscienza, e restaurò in pieno la "pleninudo potestatis".
Dobbiamo credere a questa irreprensibilità e saggezza, perche il Petrarca che con i papi avignonesi era sempre e comunque avverso, ammira e chiama Innocenzo VI " Magnus vir et iuris consultissimus".
In queste sue prime cure Innocenzo VI - come forse stava facendo o aveva intenzione di fare il suo predecessore - tolse dalle galere di Avignone Cola di Rienzo, lo rimise in libertà e lo inviò in Italia, con lo scopo di rimettere l'ordine a Roma e recuperare gli Stati del patrimonio di S. Pietro dai numerosi signori che avevano cancellato l'autorità papale; scacciando i Visconti da Bologna cui l'avevano venduta i Popoli; gli Ordelaffi da Forlì, Forlimpopoli e Cesena; i Manfredi da Faenza; i da Polenta da Eavenna e Cervia; i Malatesta da Rimini, Fano, Pesaro, Sinigaglia, Ascoli, Osimo, Ancona; i Montefeltro da Urbino e Cagli; i Varano da Camerino; i Gabrielli da Gubbio; gli Alidosi da Imola; Giovanni da Vico da Viterbo, Orvieto, Toscanella, Corneto, Civitavecchia e Terni.

 A questa impresa che non era facile Innocenzo VI prepose il cardinale EGIDIO D'ALBORNOZ, grande di Spagna, un diplomatico, un esperto di diritto ma anche un valido militare che aveva combattuto vittoriosamente contro i Mori in Andalusia ed aveva diretto con grande abilità l'assedio di Algesiras; nello stesso tempo scrisse ai Romani che aveva perdonato a Cola di Rienzo e che lo inviava a Roma assieme al suo legato, per far cessare il malgoverno e ripristinare il buono Stato. Difatti, insieme col cardinale d'Albornoz, Cola fu mandato in Italia dal Pontefice, il quale evidentemente intendeva servirsi del tribuno per ristabilire nella città eterna l'autorità papale. Cola per la "massa" che non l'aveva dimenticato, sarebbe stato molto utile.

Cosicchè il famoso agitatore che aveva cominciato la sua carriera politica da repubblicano e a Praga per opportunismo aveva vestita la casacca ghibellina, si accingeva a recarsi a Roma da guelfo.

Cola di Rienzo fece il suo ingresso solenne a Roma il 1° di agosto, accolto dalla moltitudine delirante, con l'aureola dell'esilio e lo splendore della dignità senatoria; la folla sentì nuovamente la parola calda e vibrante del suo idolo e fu ancora conquistata dal suo fascino e dal suo carisma.
Ma Roma non era più quella che aveva lasciata, era difficile da governare e non era cosa agevole conciliare la volontà del Pontefice con quella del popolo e d'altro canto c'era sempre l'aristocrazia, l'eterna nemica del tribuno, che, come  l'aveva avversato quand'egli rappresentava la riscossa popolare così anche ora non voleva piegarsi a lui come vicario del Papa.

Tutta la cronaca di questi eventi, piuttosto turbolenti si conclusero con la morte poco onorevole di Cola di Rienzo sulle scale del Campidoglio la raccontiamo QUI nelle pagine della Storia d'Italia.

"Così — scrive il Bertolini — quest'uomo straordinario espiava le contraddizioni che aveva rivelato in sé stesso. L'uomo che aveva proclamato dal Campidoglio l'indipendenza e l'unità d'Italia, le riforme della Chiesa e del genere umano, doveva cadere quale tiranno disprezzato e maledetto anche dopo morto. Ma di queste contraddizioni la colpa non fu tutta sua; pieni di contraddizioni erano i suoi tempi, fra le barbarie medioevali non ancora del tutto estinte e l'aurora che stava annunciando il rinascimento del genio latino e dell'antichità classica. 
Con tutto questo, la storia non può dimenticare che, quando l'Italia andava sempre più allargando la sua dissoluzione politica, Cola si fece banditore della unità nazionale. Se la nazione italiana avesse allora potuto ascoltare la voce di Cola di Rienzo, essa avrebbe visto procedere in parallelo il rinascimento letterario col suo risorgimento politico; il quale non si effettuò invece che cinque secoli dopo. Il cardinale legato ordinò una inquisizione sull'assassinio di Cola; ma il Papa, temendo che il processo provocasse altri tumulti popolari, stroncò l'idea, concedendo a tutti l'amnistia (7 ottobre 1355)». (Bertolini ).A Roma fu ben presto restaurato lo Stato pontificio. A questo punto divenne possibile anche una l'incoronazione imperiale di quell'uomo che era stato scelto dai papi di Avignone. Ma nel frattempo molte altre cose erano accadute nel Nord Italia.
I fatti - per non dilungarci qui - li riportiamo in queste altre pagine di Storia d'Italia,
Oltre la conferma ottenuta in patria, Carlo IV come imperatore cominciò ad essere riconosciuto anche in Italia, ed infatti vi scese: prima a Milano, dove Il 6 gennaio del 1355, ricevette nella basilica di Sant'Ambrogio la corona ferrea. Poi in Toscana nella prima decade di marzo del 1355 con un trattato l'imperatore confermava la libertà e i privilegi dei Fiorentini; annullava tutte le condanne pronunciate contro di essi; ratificava le loro leggi presenti e future; conferiva il titolo di vicarii imperiali ai priori e ai gonfalonieri di giustizia. Poi proseguì per Roma per andare a farsi incoronare in S. Pietro.
Vi giunse 2 di aprile 1355. La cerimonia dell' incoronazione dell' "imperatore dei romani" era stata fissata per il giorno di Pasqua, 5 aprile. Avendo il sovrano promesso al Pontefice di non trattenersi a Roma che per il solo giorno della incoronazione e desiderando di veder la città e visitarne le chiese, entrò in incognito vestito da pellegrino. Il suo ingresso ufficiale ebbe luogo con grande pompa solo la domenica. 

Nella basilica del Vaticano Carlo IV ricevette la corona imperiale dal Cardinale Pietro d'Ostia, assistito da Giovanni di Vico, poi, alla testa di uno splendido corteo, si recò al palazzo lateranense dove gli era stato preparato un banchetto. La sera dello stesso giorno, secondo la promessa, uscì da Roma e si rimise in viaggio per la Toscana; il 13 aprile giunse a Siena.

Vi rimandiamo alla cronaca indicata nel link sopra per cosa accadde in tutta la Toscana, e cosa accadde subito dopo quando dopo averla abbandonata volle ritornare in Lombardia.

A Milano ricevette accoglienza del tutto diversa da quella che gli era stata fatta sei mesi prima; molte città si rifiutarono di aprirgli le porte e a Cremona, dopo di essere rimasto ad aspettar due ore fuori le mura fu ricevuto a patto che entrasse senza armi. La sua avidità di denaro e la sua ambigua e fiacca politica lo avevano reso odioso e disprezzato. Gli si fece anche chiaramente capire che la sua dimora in Italia era poco gradita ai signori: infatti quando egli disse che voleva rimettere la pace tra i vari stati, gli risposero seccamente di non prendersi questo disturbo. Per lui non c'era più nulla da fare nella penisola e se ne tornò in Germania... «colla borsa -scrive Matteo Villani- piena di danari avendola portata con sè vuota, ma con poca gloria delle sue virtuosa operazioni e con assai vergogna in abbassamento dell'imperiale maestà ». 
Nel frattempo l'Albornoz impegnato e riconquistare gli Stati della Chiesa in Emilia e Romagna, stava ottenendo un successo dietro l'altro e facevano sperare al cardinale che presto sarebbe stata compiuta la restaurazione dello Stato pontificio. All'inizio dell' impresa l'Albornoz non aveva pensato che tutte le città sulle quali la Chiesa vantava dei diritti potessero essere ricondotte alla sua obbedienza. La sottomissione di Bologna, ad esempio, non era stata inclusa nel programma del legato, parendogli impresa da non doversi nemmeno tentare quella di togliere tale città a signori cosi potenti come i Visconti.
Aveva tentato con le armi, non gli era riuscito, e allora contro i nemici lanciò su di essi la scomunica e bandì una crociata concedendo il perdono dei peccati a tutti quelli che personalmente o indirettamente aiutavano la Chiesa. Ma non smise di assediare città e paesi. Una di queste fu Cesena, dove la resistenza diede fama a una donna di animo virile che, nella strenua difesa della sua città si acquistò la fama imperitura di eroina: Marzia, detta Madonna Cia, figlia di Vanni da Susinana degli Ubaldini.
(i particolari nel link già citato sopra)
Mentre si combatteva in Romagna, conflitti rinascevano in Toscana tra Pisa e Firenze e una guerra si accendeva tra Siena e Perugia (vedi nel suddetto link).

Oltre che in Romagna anche da queste parti non ci furono grandi successi, anche perchè a guidare le truppe pontificie era stato messo un abate di Cluny. Era la fine del 1358, quando il Pontefice, avendo visto la cattiva prova fatta dall'abate, rimandò in Romagna il cardinale d'Albornoz. Qui e in altri territori anche lui non è che colse dei grandi successi. Senonchè alcune sconfitte fra i grandi signori in lotta, rialzarono le sue sorti. Ma mentre la guerra infuriava tra i signori e lui ne coglieva i frutti, moriva il 22 settembre 1362 ad Avignone INNOCENZO VI.
Con la campagna dell'Albornoz - che durava ormai da dieci anni - Innocenzo nell'opera militare aveva proteso tutti suoi sforzi, convinto che dietro di essa ci fosse la salvezza del prestigio della Chiesa. In effetti alla sua morte quasi tutte le antiche province erano tornate sotto il suo scettro, e ad eccezione dei Visconti (il signore di Milano che non ubbidì all'intimazione), tutti i signori ex ribelli, furono di nuovo al servizio del papa come vassalli. E anche Roma, liberata dal predominio repubblicano ma anche da quello dei nobili, espresse a gran voce il ritorno tra le sue mura il papa, che non sordo alle preghiere (accorato l'appello del Petrarca) era quasi sul punto di cedere. Contrito si era offerto perfino l'imperatore Carlo IV ad accompagnarlo di persona, ma la salute malferma, seguita dalla morte, impedirono a Innocenzo VI di concretizzare la cosa.
Il ROHRBACHER dice che « Innocenzo VI ha avuto tutte le qualità di un buon papa: la sua vita è stata esemplare e la sua reputazione senza macchia. Amante della giustizia, dette nella sua Corte esempio di severità contro gli scandali. Protettore dei letterati, ne innalzò molti, e ad altri fece del gran bene; la sua stima per la letteratura lo spinse a chiedere il Petrarca come suo segretario: ma quest'uomo indipendente si rifiutò di accettare un posto che lo privava della sua libertà... L'unico rimprovero che gli muove uno dei suoi biografi è di essersi lasciato trasportare dall'affetto naturale dei suoi parenti e amici, dei quali molti elevò alle dignità ecclesiastiche, di cui tuttavia in buona parte non erano indegni » (Storia ecclesiastica, tom. IX).
Forse per queste sue buone qualità, e per i degni parenti e amici che lui aveva beneficiato, i cardinali del Sacro Collegio, fecero il nome del fratello di papa Clemente VI, Ugo Rogier. Ma questi rifiutò la tiara.
Il 28 ottobre 1362 i conclavisti indicarono un altro degno nome...

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