Appena morto Clemente (il 20 aprile 1314) i cardinali, in numero di ventitré, si riunirono nella stessa Carpentras (lì era radunata tutta la corte papale da quando vi era andato a soggiornare il papa) per procedere all'elezione del nuovo Pontefice. Sei erano i porporati italiani, ma tutti fermamente decisi a dare i loro voti soltanto a chi avesse dichiarato di ricondurre la Curia a Roma. Tutti gli altri erano francesi o comunque filo-francesi.
L'atteggiamento degli italiani provocò una sedizione popolare; furono incendiate le case dei cardinali e di molti cortigiani e mercanti italiani, furono minacciati di morte i prelati che non fossero disposti ad eleggere un Pontefice francese. A luglio erano ancora riuniti, ma il tumulto si fece in breve tempo così minaccioso che sei porporati italiani (alcuni affermano che furono invece vittime) si videro costretti a fuggire dopo che qualcuno aveva appiccato il fuoco all'edificio. Vi era stata infatti una vera e propria invasione al palazzo episcopale di bande guidate da Bertrand e Raimondo de Got, nipoti del defunto papa.
Il conclave ovviamente si sciolse e la Santa Sede "avignonese" rimase vacante per oltre due anni.
Nel corso di tutti questi mesi (27) , Luigi X, figlio maggiore subentrato al padre Filippo il Bello, anche se intervenne a sollecitare i cardinali a sedersi sugli scranni, non riuscì a farli riunire in conclave, ma morto lui, suo fratello successore Filippo V, piuttosto energico, invece delle parole usò la forza (si era intanto giunti al 28 giugno 1316) e segregò i cardinali in un convento dei Domenicani. Ciononostante bisognò attendere un altro mese, fin quando il giorno 7 agosto la loro scelta cadde sul nome di un altro guascone: Giacomo di Euse, vescovo di Porto.
Costui oriundo di Cahors, amava e conosceva bene l'Italia, era stato professore di diritto a Napoli, e per le sue alte qualità, il re Carlo
d'Angiò II lo scelse come precettore dei suoi due figli, Roberto che divenne poi suo successore, e Lodovico che invece scelse la vita francescana e che era poi finito fare il vescovo proprio a Porto, ma vi morì ancora molto giovane e gli subentrò il suo maestro e futuro papa, uomo zelante, attivo, ma di una pietà ammirabile, fervente devoto verso Maria Santissima ( fu lui a estendere la recita del Santo Rosario a tutta la cristianità), evangelicamente molto operoso non solo nel salvare le anime ma anche premuroso a raccoglire ingenti fondi per la Chiesa in modo che nel funzionamento non avesse alcun problemi economici.
Se i suoi elettori, nel vederlo pensavano che durasse poco, si sbagliarono di grosso. Campò fino a 90 anni, lasciandosi dietro per la Chiesa un produttivo pontificato di 18 anni.
Infatti quando fecero il suo nome, Giacomo di Euse, aveva non solo 72 anni, ma era un uomo piccoletto, malandato e anche deforme. Ma incredibilmente attivo, certe volte impetuoso, ma grande studioso e intelligentemente prudente; il Petrarca ce lo tramanda "home perstudiosus et vehementioris animi"; Giovanni di Andrea "scientia magnus, statura pusillus, conceptu magnanimus"; il cronista Ferreto "licet venustae deformis, non minus prudent quam ingeniosus".
Così attivo che moltiplicò le sedi episcopali, ed essendo stato un precettore e quindi amante della cultura, aprì molte scuole, vigiliò sulle università. Riordinò l'amministrazione della Chiesa e organizzò la cancelleria papale; creò un tribunale per gli affari più importanti da discutere, destinandovi 12 giureconsulti non fissi ma a rotazione (rotatim), che divenne la Sacra Rota. E prendendo in mano le Decretali, nel Corpus Iuris aggiunse così tanto che furono chiamate le sue note "Extravagantes". (ne parleremo a fondo pagina)
Ciò che fece poi a fin di bene ma che qualcuno cominciò ad approfittarsi, trasformandolo in un vizioso male, fu la creazione di tanti offici e dignità, sviluppando così enormemente le commende, che potevano essere conferite non solo ad ecclesiastici ma anche a laici. E proprio per questo motivo, cominciarono gli abusi, furono oggetto di mercimonio, dando origine a scandali che fu in seguito difficile estirpare; le simonie si moltiplicarono e si aggravarono fino al Concilio di Trento.
Consacrato papa il 25 settembre 1316 con nome di Giovanni XXII, il pontefice si trovò subito tra le mani la questione tedesca. Nei due anni di "sede vacante" in Germania era accaduto di tutto. Se ricordiamo, alla morte in Italia del giovane Enrico VII, Clemente V (pur avendolo chiamato lui in Italia) aveva poi cambiato improvvisamente bandiera, e alla sua precoce e improvvisa morte, aveva (inopportunamente) nominato vicario imperiale Roberto
d'Angiò. Questi tutto intenzionato non a fare gli interessi per quel papa assente da Roma, ma solo i suoi, aveva già avocato a se il potere imperiale, e si era messo in testa di diventare lui il padrone di gran parte dell'Italia. Avendo questi progetti Roberto era pronto a far la guerra a qualsiasi altro tedesco che avesse varcato nuovamente le Alpi.
I tedeschi dietro le Alpi ci rimasero per un bel po. Infatti durante la "sede vacante", i contrasti non erano solo ad Avignone tra le due fazioni di cardinali, ma anche in Germania si era aperta una grave crisi tra i principi elettori per la successione di Enrico VII, e non trovando un accordo ma semmai inasprendo i contrasti avevano fatto alla fine una duplice elezione. Il 19 ottobre 1314, alcuni principi avevano proclamato Federico d'Austria, ma il giorno dopo gli altri principi avevano eletto Lodovico il Bavaro. Scoppiò quasi subito una guerra civile e quando fu eletto Giovanni XXII papa, era in pieno corso, e continuò per altri sei anni, perchè da guerra civile si era trasformata in una vera e propria guerra tra i due contendenti.
L'uso delle armi premiò il Bavaro, che nella battaglia di Muhldorf, vinse e fece prigioniero il rivale, ma non lo fece uccidere, ma lo rinchiuse in un castello (Traunitz).
Giovanni XXII aveva cercato di sottomette i due contendenti, ma inutilmente, forse perchè essendo neo-papa non aveva ancora carisma.
Le ripercussioni di quella vittoria di Lodovico il Bavaro si ebbero anche in Italia. Per l'inopportuna nomina di Roberto fatta dal precedente papa (vicario imperiale, e capo del partito Guelfo) e per le palesi ambiziose intenzioni che l'angioino non nascondeva di avere, le città Toscane e Lombarde si erano allarmate, a ragione, perchè Roberto disponendo un esercito di quasi l'intera penisola, le avrebbe certamente sopraffatte. Cosicchè Ghibellini Lombardi (con a capo i Visconti) e Ghibellini Toscani si unirono per trovare una via d'uscita, che era una sola, la solita, quella di chiamare in aiuto uno straniero; cioè Lodovico il Bavaro, che aveva vinto a Muhldorf, aveva eliminato l'avversario, e si era incoronato da solo imperatore, re di Germania, d'Italia e di Borgogna.
A questo punto, seguendo la linea del suo predecessore, venne fuori Giovanni XXII, a parteggiare nuovamente per l'Angioino. L'8 ottobre 1323, sulla porta della chiesa di Avignone faceva affiggere un severo monito per il Bavaro.
La notizia degli aiuti forniti da Ludovico il Bavaro ai Visconti provocò -come era naturale- l'ira di Giovanni XXII, il quale affermando che solo la S. Sede era amministratrice dell'impero durante l'interregno e che nessuno poteva usare il titolo ed esercitare l'ufficio di imperatore senza l'approvazione papale, l' 8 ottobre del 1323 pubblicò una sentenza: sotto la minaccia della scomunica, ordinava a Ludovico di deporre entro tre mesi il titolo e l'ufficio e di non riprenderli se prima l'elezione non veniva confermata dalla Sede Apostolica e di annullare tutte le deliberazioni prese come imperatore, inoltre proibiva a tutti gli ecclesiastici, sotto pena di sospensione, e ai laici sotto pena di scomunica e di interdetto, di aiutare il Bavaro o di ubbidirgli in qualità di Re dei Romani. . Dichiarava inoltre nemico della Chiesa il già scomunicato Galeazzo Visconti per aver chiesto l'aiuto di Lodovico, e aggiunse perchè aiutava la ribelle Ferrara e perchè aiutava i frati eretici (le varie sette che predicavano
apocaliticamente la riforma della Chiesa corrotta).
Il tedesco dal monito non si fece intimorire, rispose con una dieta a Norimberga, dove precisò che l'impero non era vacante, che la nomina l'aveva ricevuta dai principi elettori, e aggiungeva con impertinenza, che il papa avrebbe fatto meglio a pensare alla sua dignità e alle proprie colpe. E nel dirlo fece diffondere libelli infamanti contro il pontefice.
Giovanni il 23 marzo 1324 lo scomunicò. Poi con la sentenza dell'11 luglio 1324, lo privava ufficialmente della dignità, e proscioglieva i sudditi dal giuramento di fedeltà.
I maligni ben informati dissero che il papa francese volesse dare la corona imperiale al re di Francia; del resto questo era da tempo un sogno sempre rincorso dal defunto Filippo il Bello, quello di diventare lui imperatore.
Il Bavaro giocò invece d'astuzia. Liberò dalla prigionia Lodovico, da tre anni rinchiuso nel castello di Traunitz, lo convinse a rinunciare a qualsiasi pretesa al trono, e lo convinse pure di adoperarsi per convincere i suoi amici elettori e soprattutto suo fratello Leopoldo d'Austria; così la sua incoronazione diventava legittima e non usurpata.
Ma ormai Giovanni XXII aveva deciso a chi doveva andare la corona imperiale, e sembra che anche in Germania i principi a favore del Bavaro furono pochi.
Indubbiamente pochi, perchè il Bavaro, raccolto un discreto esercito scese in Italia, e quando giunse a Trento lanciò al papa una serie di infamie, dando ragione e facendosi alleati tutte le sette eretiche. Poi proseguì per Milano, e qui il 30 maggio 1327, nella basilica di Sant'Ambrogio, le mani del vescovo Tarlati (un guelfo diventato ghibellino) gli metteva sul capo la corona regia d'Italia. Scese poi in Toscana, creando Duca un signore di Lucca, infine si mosse per Roma, dove al suo avvicinarsi una insurrezione aveva già cacciato da Roma i Guelfi e le truppe di Roberto
d'Angiò.
Saputo dell'arrivo di Ludovico il Bavaro a Viterbo, i Romani gli inviarono una deputazione e il sovrano, il 7 gennaio, entrò nella capitale dell'impero accolto dal popolo con manifestazioni di gioia. Il legato pontificio lanciò su Roma l'interdetto, ma questo non valse a impedire l'incoronazione imperiale che ebbe luogo il 17 gennaio.
Un corteo imponente accompagnò da Santa Maria Maggiore alla basilica di San Pietro il sovrano attraverso vie addobbate con ricchissimi tappeti; Ludovico era preceduto dai capitani del popolo, dai consiglieri e dai baroni romani, che indossavano vesti ricamate di oro, ed era seguito dai quattromila cavalieri del suo esercito; Castruccio, che era stato creato cavaliere e conte palatino del Laterano, portava la spada imperiale. Il Bavaro fu ricevuto in San Pietro da Giacomo Alberti vescovo di Venezia e Gerardo Orlandini vescovo di Aleria, entrambi scomunicati, che lo consacrarono; poi Sciarra Colonna (l'uomo dell'oltraggioso schiaffo a Bonifacio VIII ad Anagni - Come avevano dimenticato in fretta i Romani!) "in nome del popolo romano" gli pose sul capo la corona e il Castracani gli cinse al fianco la spada.
Scrive il Villani: "In nessuna cronaca antica o novella, un imperatore cristiano mai si facesse incoronare se non al papa o a suo legato".
Era insomma una incoronazione rivoluzionaria.
Ma Lodovico andò anche oltre la presunzione; dando ascolto alle sette eretiche della più cattiva fama, agli apostati, a Marsilio da Padova (che il Bavaro nominò addirittura Vicario della Chiesa Romana) istituì un processo in contumacia contro Giovanni XXII. Il 18 aprile 1328 tredici membri rappresentativi del clero romano lo dichiarava eretico, delinquente, lo deponeva e nominava il 12 maggio 1328 nuovo pontefice l'eresiarca francescano Pietro Rinalducci (capo dei ribelli Spirituali, che Giovanni XXII aveva messo al bando come eretici fin dal 1317) , che prese il nome di Niccolò V. Il neo-papa come primo atto con la solita tradizionale cerimonia incoronava Lodovico il Bavaro imperatore.
Altri atti non ne fece più; era sì stato un ribelle, ma era un insignificante umile frate, e forse si rese conto da solo che tutto ciò che era avvenuto era una grande farsa, che non giovava di certo il cristianesimo. Nell'agosto del 1330, andò a fare atto di pentimento ad Avignone, Giovanni lo perdonò con un bacio e di lui non si sentì più parlare. Forse lo trattenne prudentemente in qualche segreta del palazzo finchè uscì di vita tre anni dopo.
A proposito di questi francescani, bisogna dire che l'intransigenza di Giovanni, che seguitava a disprezzarli con nome di "fraticelli" (ma alcuni finirono sotto l'inquisizione, altri condannati al rogo) non aveva portato serenità nell'Ordine; questo seguitava a far riferimento alla povertà di Cristo e dei suoi apostoli; povertà e beni comuni affermavano - questo doveva essere il "vero cristianesimo" predicato dalla Chiesa, non quello sommerso nelle mollezze e nel lusso. Con una bolla emanata nel 1323, Giovanni dichiarò tale asserzione eretica, e l'Ordine dei Francescani si risentì molto; perfino il loro generale Michele da Cesena convocato ad Avignone per giustificare il suo atteggiamento, preferì rifugiarsi alla corte di Lodovico insieme a Guglielmo d'Occam; poi furono colpiti entrambi dalla scomunica.
Ma oltre i due, molti Frati Minori iniziarono ad accusare, proprio lui, il papa, di eresia. Ecco perchè da Trento e fino a Roma, oltre i laici, il bavaro trovò un considerevole appoggio dei Frati Minori.
Fra l'altro i Minori a Giovanni gli contestavano il primato di Pietro. Lui non era stato mai a Roma, e dato che il diritto divino, solo a Roma e sulla cattedra dell'Apostolo veniva dato a un papa da Dio, dunque lui non era un legittimo papa, e non aveva alcun diritto di eleggere o deporre imperatori. Quanto a quest'ultimi, anche sotto il profilo laico, solo il popolo romano poteva acclamare un imperatore.
Ma torniamo a Roma. Se l'antipapa nel 1330 era andato ad Avignone a chiedere perdono, l'anno prima (dicembre 1329) ad abbandonare Roma lo aveva preceduto Lodovico. I Romani che lo avevano applaudito il 7 gennaio 1328 imperatore, ben presto si resero conto con chi avevano a che fare; i tributi imposti dal tedesco nel corso dei due anni provocarono subito risentimenti nei suoi confronti; qualcuno già stava sollecitando Roberto
D'Angiò a intervenire; e questo già si stava muovendo; una flotta era già ad Ostia e si era impossessata di un presidio tedesco. L'aria che tirava si era fatta insomma pesante, e il Bavaro che forse era convinto anche lui che era stato tutta un farsa, e continuarla sarebbe stato pericoloso, nel dicembre del 1329 accantonò l'idea di andare a punire a Napoli il
D'Angiò, e preferì abbandonare la città e far rientro in Germania, non prima di aver collezionato una serie di fallimenti in Toscana, in Lombardia, in Emilia e aver subito una continua diserzione di milizie.
(La cronaca di questi fallimenti nelle pagine di Storia d'Italia, nel link a fondo pagina )
La discesa in Italia di Lodovico il Bavaro ebbe insomma poca storia. "Partiva dall'Italia - scrive il Muratori - lasciando una abominevole memoria di sè medesimo presso i Guelfi e forse non minore presso i Ghibellini"
Da Milano a Firenze, nemici e amici l'avevano capita. Come a Roma che cercarono subito dopo di riconcialirsi con il papa. Lodovico era sceso in Italia e a Roma per abbassare il prestigio della S. Sede e del Guelfismo e rialzare quello dell' impero e del Ghibellinismo, e invece Roma era caduta completamente in mano della Chiesa.
Lodovico non ebbe fortuna nemmeno in Germania. Si agitò ancora per qualche anno, e ogni sconfitta l'attribuiva al papa che governava illegalmente, e fino a tutto il 1334, seguitò a cercare senza successo alleati per far deporre l'eretico Giovanni XXII. Questi tolse il disturbo dalla vita terrena il 4 dicembre dello stesso anno. Stava compiendo il suo 90mo anno.
A parte la lotta, in questo periodo fecondo di Giovanni, fra Impero e Chiesa - ci fa notare Castiglioni nella sua Storia dei Papi - andò delineandosi una questione di principio che le due parti avevano affrontato in pieno, giacchè maturò un nuovo diritto costituzionale dell'Impero, che capovolgeva la medievale istituzione di Carlo Magno e di Leone II.
"Giovanni XXII si era irrigidito sui punti di diritto che erano stati fissati dalle Decretali di Innocenzo III, e in particolare nella lettera Venerabilem fratrem Salisburgensem. I punti essenziali erano questi:
1°) l'elezione del re di Germania compete ai principi di Germania;
2°) anche dopo che il pontefice ha congiunto col regno di Germania il Sacro Romano Impero, l'elezione del re compete ai principi;
3°) fatta la elezione, spetta al papa il diritto di esame utrum electus dignus sit, qui imperator constituatur;
4.°) se l'eletto non è ritenuto degno della maestà imperiale, i principi devono eleggerne un altro: rifiutandosi di ciò fare, il papa è libero di conferire la corona imperiale ad un altro principe;
5°) nel caso che l'elezione fatta dai principi sia dubbia su parecchi candidati, il papa può invitare i principi ad accordarsi su di uno solo, oppure lo stesso pontefice decide da arbitro fra i contendenti, in base alle qualità morali dei medesimi, giacchè la Chiesa non deve rimanere priva dell'imperatore che ne deve essere il protettore e il difensore.
"Di contro a questi principi affermati dal diritto canonico, s'erano già levate voci contrastanti, come aveva fatto DANTE stesso col suo De Monarchia, in cui negava alla Chiesa ogni ingerenza, anche indiretta, nelle cose temporali. Altri sostenevano che l'eletto, ipso iure, diveniva imperatore senza bisogno di alcuna conferma da parte del pontefice o del popolo romano; altri ancora dicevano bastare l'accettazione da parte del popolo romano.
I Regalisti ora bandivano teorie ancora più radicali, come Guglielmo Ockam e gli pseudo-frati Minori, i quali giungevano fino a sostenere che il pontefice non era che un suddito dell'imperatore; questi anzi ha il diritto di eleggere il pontefice e di deporlo, qualora si fosse reso indegno. I teorici di queste nuove dottrine, che capovolgevano la costituzione del Sacro Romano Impero, furono MARSILIO DA PADOVA e GIOVANNI JANDUNO dell'università di Parigi, i quali di comune accordo compilarono il famoso libello De fensor Pacis, e lo dedicarono appunto a Lodovico il Bavaro. Il libello fu condannato con la bolla Licet iuxta doctrinam, e gli autori si ebbero la scomunica. Anche l'università di Parigi proscrisse e condannò il libro rivoluzionario.
Nel De fensor Pacis, con stile vigoroso ed affascinante, col pretesto di ristabilire la pace nel mondo, viene sovvertita la stessa costituzione della Chiesa. Eccone i punti fondamentali:
1°) il potere legislativo e giudiziale della Chiesa risiede nella comunità e quindi nell'imperatore, che ne è il rappresentante;
2°) la gerarchia ecclesiastica è stata creata dalla comunità e dall'imperatore;
3°) alla medesima l'imperatore un tempo ha demandata l'autorità, e quindi l'imperatore gliela può revocare. Cristo non ha costituito alcun capo dei suoi apostoli, e non si può dimostrare che Pietro sia stato a Roma;
4°) il papa non ha di per sè alcuna autorità: egli ha incoronato Carlo Magno come mandatario del popolo romano;
5°) il papa non ha diritto nè di eleggere, nè di giudicare, nè di deporre l'imperatore, il quale anzi può far tutto questo nei riguardi del papa; 6° ogni autorità che il papa e la Chiesa esercitano è loro conferita dall'imperatore, il quale può entrare in possesso di tutti i beni ecclesiastici quando gli aggrada, poichè Cristo medesimo pagò il tributo a Cesare. Il contesto del libello inoltre è tutto infarcito di invettive contro Giovanni
XXII, «l'immane dragone, l'antico serpente ».
Sorsero a difendere la dottrina cattolica valenti teologi, quali Alessandro di S. Elpidio, arcivescovo di Ravenna; il frate minore Alvaro Pelagio; il domenicano Pietro de Palude; l'agostiniano Agostino Trionfo e Corrado di Megenberg. Confutarono essi l'asserzione che l'impero fosse di immediata origine divina e al disopra della Chiesa. All'incontro fecero causa comune coi Regalisti quei frati Minori che a questa epoca passarono all'eresia e allo scisma".
Il novantenne, piccoletto, malandato e anche deforme, morendo aveva lasciato dietro di sè non poche polemiche.
|