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I PAPI

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CLEMENTE V, Bertrando de Got, francese
(1305-1314)

Benedetto XI appena spirato, i cardinali in numero di venticinque, si riunirono in conclave nel palazzo arcivescovile di Perugia; avevano fretta di eleggere il successore, per il motivo che temevano ingerenze esterne. Ma allo stesso interno le fazioni era due, una francese che era per la pace con la Francia, e l'altra italiana che non aveva dimenticato l'oltraggio di Anagni di Filippo il Bello.

Quindi non era facile procedere all'elezione del nuovo Pontefice. Come appena detto, in due parti era diviso il Sacro Collegio: quella fedele alla politica di Bonifazio VIII, era capeggiata da Matteo Rosso degli Orsini insieme a Francesco Caetani; l'altra ligia al re di Francia era guidata dal cardinale Napoleone degli Orsini. Nonostante la fretta, passarono giorni e mesi senza che si venisse ad una decisione. Ne passarono di mesi dodici e i Perugini spazientiti fecero come si usava a Viterbo, scoperchiarono il tetto del palazzo, li misero a pane e acqua e, costretti i cardinali a questo severo digiuno finalmente in pochi giorni fu fatto un compromesso tra le due fazioni cardinalizie: su proposta del cardinal D'Acquasparta, che segretamente favoriva il partito francese, si stabilì che la fazione italiana dovesse proporre tre nomi di prelati stranieri tra i quali la fazione avversa avrebbe scelto il futuro Papa. I cardinali italiani proposero tre prelati francesi notoriamente nemici di Filippo il Bello, tra i quali un arcivescovo di Bordeaux sempre stato favorevole a Bonifacio VIII nella contesa col re di Francia. Ma non sappiamo se veramente sentita o se - con lui vivo - era la sua solo una forma di gratitudine a chi lo aveva nominato vescovo.
Il 5 luglio, il nome prescelto dalla terna fu proprio l'arcivescovo di Bordeaux, Bertrando De Got. Era nativo di Villandraut nella Gironda, aveva studiato a Orleans e Bologna, e proprio Bonifacio VIII, lo aveva eletto arcivescovo (ma non ancora cardinale) di Bordeaux. Tuttavia non era come il suo protettore in cattivi rapporti con Filippo il Bello, anche perchè risiedeva in Francia, dove c'era un episcopato con una gran voglia di autonomia da Roma. Più servile nei confronti del sovrano che non alla Santa Sede.
E proprio per questi buoni rapporti, sono sorte leggende intorno a questo papa che andò a sconvolgere il papato, la sua sede naturale, e di conseguenza tutta la politica della Santa Sede in Italia per un settantennio.

Si narra che avuta la notizia della nomina dai cardinali elettori, il De Got s'incontrò con Filippo il Bello. Se veramente tra i due vi erano alcune divergenze, queste sparirono subito. Il primo era desideroso di mettersi la tiara, e all'altro non gli parve vero di avere un papa in casa.
Il Villani riferisce di un accordo. Il De Got come futuro papa avrebbe promesso al re di Francia alcune concessioni, e fra queste l'uso delle decime del reame per cinque anni e altre cose che via via il sovrano gli chiese e lui concesse.
Oltre il Villani, anche Dante, afferma che il "pastor senza legge", pur di diventare papa si "comperò" il potente appoggio di Filippo, ecco perchè gli assegnò un posto all'Inferno tra i simoniaci (XIX, 85-87).
Ma il più bello doveva venire. Ai cardinali che gli avevano comunicato la nomina e l'invito a scendere subito a Roma per l'incoronazione e la consacrazione "sulla cattedra di Pietro, dove sarete lontano dai re e dai popoli, dove ispirerete ad essi più profondo rispetto, e sarete meglio obbedito", lui rispose ai suoi elettori e futuri consacratori di trasferirsi in Francia, perchè voleva essere incoronato nella sua patria. Indicò loro perfino la città e la chiesa per la solenne cerimonia.

Non era mai accaduto, ma tra lo sconcerto e le polemiche, i cardinali loro malgrado, dovettero ubbidire, fecero la trasferta in Francia, e il 14 novembre 1305, nella chiesa di S. Giusto a Lione, alla presenza di Filippo il Bello, che nel corteo gli reggeva le briglie del cavallo, Bertrando De Got fu consacrato papa col nome di CLEMENTE V.
La cornice della cerimonia fu maestosa, ma fu funestata da tristi presagi (in seguito venne interpretato come un castigo di Dio per l'abbandono di Roma) al passaggio del corteo ci fu il crollo di un muraglione che fece diverse vittime, dodici baroni morirono sul colpo, il Valois restò ferito gravemente, il duca di Bretagna morì più tardi per le ferite, e anche un fratello del pontefice ci lasciò la vita. Anche il neo-papa investito cadde da cavallo e nella confusione la famosa tiara di S. Silvestro portata da Roma per la sua investitura, cadde a terra; quando frettolosamente fu raccolta mancava un prezioso diadema (altro presagio funesto).

In qualche modo furono portati a termine i riti. L'incoronazione nella sua patria era stata fatta, quindi ci si aspettava il suo viaggio verso Roma, per sedersi sulla cattedra di Pietro. Ma ci fu la seconda delusione, il neo-papa, espresse timori per i tumulti romani, preoccupazioni per quelle fazioni forse a lui contrarie, quindi declinò il viaggio romano e mise sede temporaneamente a Lione, poi a Cluny, a Bordeaux, a Poitiers, infine ad Avignone.
Clemente V non tardò a rivelarsi un servo devoto del re di Francia: restituì un mese dopo la sua incoronazione la porpora a Giacomo e a Pietro Colonna, creò dieci (su 11) nuovi cardinali francesi, assolse dalla scomunica Filippo e tutti i suoi complici, concesse al sovrano le decime ecclesiastiche per cinque anni, lo autorizzò a scacciare dal reame tutti gli Ebrei e a confiscare i loro beni; infine bandì una crociata che, sotto la guida di Carlo di Valois, doveva conquistare l'impero bizantino, togliendolo ad Andronico Paleologo accusato di non sapersi opporre ai progressi d'un nuovo nemico della Cristianità: il Turco.

 Sollecitato dal Valois, che, essendo sposo di Caterina di Fiandra, vantava diritti su Costantinopoli, Clemente V scrisse all'arcivescovo di Ravenna e ai vescovi della Romagna, della marca di Ancona e dello stato di Venezia perché bandissero la crociata contro i Greci; minacciò la scomunica a quei principi cristiani che osassero sostenere il Paleologo; tentò di far partecipare all'impresa Federico III di Sicilia e invitò anche le repubbliche di Genova e di Venezia affinché fornissero le loro flotte. Le due repubbliche marinare erano ancora ai ferri corti, inoltre, una era a favore del papa l'altra di Costantipoli dove faceva dal tempo delle prime crociate ottime affari in Oriente con i bizantini.
Poi a Valois morì la moglie, le sue finanze andarono esaurite, la crociata non ebbe più luogo.
Senza muoversi mai dalla Francia, Clemente V, volle occuparsi della questione Toscana, dove nel suo breve pontificato, Benedetto XI aveva tentato ma anche fallito, di smorzare quelle animosità che il Valois aveva creato, parteggiando per i Neri. Il Valois invece di attenuarle le discordie fra Bianchi e Neri parteggiando per quest'ultime le aveva inasprite. La città era un perenne campo di battaglia. Il legato inviato da papa per la riconciliazione, visto crollare la sua missione di pace ed essendo stato perfino minacciato durante una sommossa, aveva lasciato Firenze, lanciandole l'interdetto (4 giugno del 1304). Dopo la partenza del cardinale, Firenze era ripiombata nel disordine. Saccheggi, distruzione, scontri e un apocalittico incendio che aveva provocato la distruzione di 1700 case e numerosi importanti monumenti.
(qui in "Storia d'Italia" la cronaca dettagliata di questo drammatico periodo)

Quando si arrivò al punto critico, con le crudeltà inaudite, e con gli assedi di città che duravano mesi e mesi (come Pistoia), qualcuno si rivolse per chiedere aiuto a Carlo II d'Angiò, il quale mandò il figlio Roberto, mentre altri si rivolsero a papa Clemente. Che cambiò spartito alla musica che stava suonando perchè nelle cose di Toscana Clemente V seguì una politica opposta a quella di Bonifacio VIII mostrando di voler favorire più i Bianchi che i Neri per far piacere ai Colonna che erano ghibellini e al cardinale da Prato che non era rimasto contento del contegno dei Neri.

Mentre questi avvenimenti accadevano a Firenze altre discordie avevano luogo in altre città dell'Alta Italia. Nel gennaio del 1308 moriva Azzo d' Este, lasciando la signoria di Ferrara al figlio naturale Fresco, contro cui subito si levò Francesco, fratello del defunto marchese, che sI impadronì di Rovigo. Non sentendosi abbastanza forti, i due contendenti ricorsero all'aiuto di altri: il primo chiese il soccorso di Venezia, il secondo quello di Clemente V. Sia il Pontefice che la repubblica accolsero volentieri l'invito. 
« II Papa, infatti,— scrive il Battistella, uno degli ultimi ed accurati storici di Venezia — erede legittimo di tutti i beni della contessa Matilde di Toscana, tra cui Ferrara, intendeva profittare dell'occasione per ridurre questa città sotto il proprio dominio diretto. Venezia che da oltre tre secoli si affaticava per assoggettarsela anche territorialmente, giudicò che questa era una buona occasione. Iniziando in tal modo trent'anni prima di quel che comunemente si creda, la sua politica di terraferma". 

 Ed ecco pertanto la repubblica di fronte al Pontefice accingersi ad un impari lotta nella quale le armi spirituali, onnipotenti nell'ambiente morale di quei tempi, conseguiranno la decisiva vittoria. Infatti l'intervento pontificio non fu un successo di armi, di conseguenza il 25 ottobre usarono l'altra arma, e fu pronunciata contro Venezia la scomunica se entro dieci giorni non si fosse piegata alle ingiunzioni della Chiesa. L'aveva pronunciata lo sconfitto legato papale, ciononostante fece impressione ai Veneziani, che ritennero di fare con lui il 1° dicembre 1308 una vera convenzione di pace a certe condizioni. Quando però Clemente ebbe in mano il trattato non ne volle sapere di ratificarlo, e il 27 marzo 1309 con una bolla ammonì Venezia che se entro un mese non gli avesse dato piena soddisfazione sarebbe incorsa nei castighi più terribili che la Chiesa avesse mai fulminati.
Venezia tentò con l'invio di tre ambasciatori di far esaminare al papa bene le condizioni contenute nel trattato. ma non furono nemmeno ricevuti.
Il momento era molto grave e nel Maggior Consiglio e nella commissione dei Savi eletti pro factis Ferrarie si discusse a lungo sul partito da prendere, essendo non i soli consiglieri, ma l'intera cittadinanza divisa in due parti, che erroneamente fu dette guelfa e ghibellina; una reputava esser saggio che si dovesse a qualunque costo venire a una conciliazione col Pontefice, mentre l'altra decisa a non cedere di un punto, incitava a non lasciarsi sfuggire l'occasione di conquistare una città tanto importante come Ferrara.

La cosa si fece molto seria quando trascorsi i termini fissati dal Papa, questi iniziò ad agire. Il cardinale Arnaldo di Pelagrua, legato pontificio, pronunziò le censure canoniche comminate con la citata bolla del 27 marzo. Con esse deponeva la Repubblica da ogni potere e dignità e la si abbandonava di diritto a chiunque avesse voluto impadronirsene; si proclamava la confisca di tutti i beni mobili e immobili che essa e i suoi magistrati e cittadini possedevano nella città e in qualsiasi altro luogo; si dichiaravano nulli tutti i trattati e le convenzioni da essa stipulati con chicchessia; si vietava sotto pena di scomunica di portar merci e viveri a Venezia; e incitavano tutti i popoli e gli stati cristiani ad andare contro di essa.

Le conseguenze furono nefaste. Con la scusa di un simile interdetto, non solo tutti i nemici di Venezia, ma anche quelli del suo entroterra ne approfittarono per regolare certi conti con la loro dominatrice. Infine ne approfittarono le terre e gli stati anche lontani, che per gelosie, per paure, e sopratutto per il suo opprimente predominio marittimo e commerciale nutrivano malanimo contro Venezia, e si atteggiarono ostilmente, sequestrando mercanzie, navi, fondachi, che essa aveva nelle loro pertinenze, catturando sudditi suoi, chiudendole tutti i porti e gli scali, ribellandole luoghi a lei soggetti, quali Lésina, Curzola, Zara e, per opera del patriarca aquileiese, la stessa Istria iniziò a suo danno violenze soprusi e infamie sotto la giustificazione dell' interdetto; e quando Arnaldo di Pelagrua le predicò contro una crociata, da ogni parte d'Italia accorsero combattenti bramosi di sfogare il vecchio livore, di spartirsi le spoglie della sua decantata opulenza, e di compiere, con la benedizione della Chiesa, quelle vendette che la sua potenza aveva ad essi fino allora vietate. 

Quest' ira di Dio scatenata da un Pontefice con poca carità cristiana si ripercosse su gran parte d'Europa e dalla Francia alla Turchia, dall'Austria alla Sicilia, offese e danni gravissimi vennero a colpire la repubblica nell'onore e negli interessi. In siffatte condizioni non era possibile che l'impresa contro Ferrara avesse un buon esito e, infatti, non l'ebbe: Venezia fu sconfitta sanguinosamente il 28 agosto 1309 a Castel Tedaldo, dovette rassegnarsi a chieder pace e dopo lunghe e difficili trattative e dolorose umiliazioni, fare un vero atto di dedizione a Clemente V, il quale solo dietro il pagamento di 50.000 fiorini d'oro per risarcimento dei danni e delle spese di guerra, le restituiva gli antichi privilegi in Ferrara al cui possesso reale essa però rinunziava; e più tardi, nel gennaio 1313, levata la scomunica, l'accoglieva di nuovo nel grembo della Chiesa. In questo medesimo anno (1309) Clemente V fissava la sede pontificia in Avignone, che vi rimase fino al 1376, ospitando sette papi, ovviamente giostranti sull'orbita francese, "papi di Corte". Tale influenza in italia ebbe funesti effetti, cadde in preda alla disgregazione e lo Stato pontificio all'anarchia. Questo periodo fu chiamato "schiavità babilonica" a ricordo della settantenne servitù del popolo ebreo sotto i Babilonesi. Per mille anni la storia della cristianità era legata a Roma, e il mondo cristiano ebbe l'impressione che la Chiesa era diventata una "donna di servizio" dei re di Francia e che la nazione francese si arrogava di dominare spiritualmente tutta la cristianità.
Diede maledettamente ai nervi a Dante (lui ghibellino !), è fu ancor più impietoso quando nel Purgatorio Clemente V lo chiama "una puttana sciolta" alla mercè di Filippo il Bello (XXXII, 148-150).

Nello stesso anno a Napoli (il 5 maggio) moriva Carlo II d' Angiò lasciando, come di diritto, legittimo erede il giovane nipote Cariberto, primogenito del defunto sovrano Carlo Alberto, morto nel 1301 in Ungheria di cui era re; invece ignorando tale diritto gli succedette sul trono il terzogenito Roberto, già duca di Calabria (il secondogenito Ludovico era vescovo).
Ora siccome Cariberto reclamava per sé il reame, Roberto si recò ad Avignone dal Pontefice affinché questi, come sovrano feudale del regno, lo concedesse a lui.
La causa di Roberto fu calorosamente perorata da Bartolomeo di Capua, il quale convinse Papa Clemente che sarebbe stato un male dare la corona di Napoli a un giovanotto nato e vissuto in Ungheria (Cariberto), non conosciuto né amato dai nuovi sudditi e che inoltre avrebbe dovuto governare da lontano. Fu così che il Pontefice, dichiarò, nell'agosto di quell'anno, Roberto erede legittimo, lo coronò in Avignone con grande solennità, e gli condonò i debiti del padre e del nonno verso la Chiesa. Infine poiché una grave minaccia per l'Italia sorgeva in Germania col nuovo imperatore, gli diede l'incarico di organizzare il partito guelfo e la difesa contro questo nuovo pericolo imperiale (facciamo qui bene attenzione - "contro un pericolo imperiale")
 
Ma cos'era accaduto in Germania da rappresentare un pericolo? L'anno prima nel maggio del 1308, sulle rive del fiume Reuss, l' imperatore Alberto d'Absburgo veniva pugnalato dal nipote Giovanni d'Austria. Avuta notizia del regicidio, Filippo il Bello concepì il disegno di fare ottenere la corona imperiale al fratello Carlo di Valois e pregò il Pontefice affinché adoperasse tutta la sua autorità in favore dell'elezione di quest'ultimo.
A questo punto Clemente rinsavì, o fece altri calcoli, o perchè stanco di fare la "donna di servizio, o perchè si accorse che aveva troppo concesso al re di Francia e il pericolo in cui aveva messo la Chiesa; ma non potendo o non sapendo apertamente opporre un rifiuto, promise al monarca che si sarebbe adoperato a favore del conte di Valois, ma preoccupato, e non a torto, dalle conseguenze che sarebbero derivate all'equilibrio politico europeo e all'egemonia del Papato dall'elezione di Carlo di Valois, segretamente consigliò gli elettori tedeschi di dar la corona ad Enrico di Lussemburgo, principe savio e leale, ma non ricco e potente, il quale appunto proprio per questo - se fosse riamsto quello che era - non avrebbe mai potuto recare ombra nè alla Santa Sede nè ai potenti signori germanici.
Nel novembre, con molto dispetto al re francese e con grande meraviglia di tutta l'Europa, Enrico di Lussemburgo fu eletto imperatore a Francoforte, poi il 6 gennaio 1309 incoronato ad Aquisgrana.
In Germania nessuno si oppose perchè egli annunziò che, con il consenso del Pontefice, sarebbe sceso in Italia a cingervi la corona imperiale.

Filippo e il Valois si rosero dalla rabbia, mentre in Italia fu grande la commozione da questo annuncio. Da sessant'anni la penisola non aveva più visto imperatori; molte vicende erano successe dopo la morte di Federico II; agli Svevi ghibellini erano successi gli Angioini guelfi; si erano sviluppate ed affermate le libertà comunali; erano sorte e si erano consolidate non poche signorie; guelfismo e ghibellinismo, avevano lasciato a poco a poco col volger degli anni il primitivo significato politico e conferito il loro nome a partiti mossi da altre cause e guerreggianti per altri scopi; gli imperatori, infine, riconoscevano ora la supremazia papale e, vivendo in pace con la Chiesa, non potevano incuter timore agli avversari di una volta e nemmeno rinverdir le speranze degli antichi fautori.

Malgrado però le mutate condizioni sociali e politiche, l'Idea imperiale in Italia non era morta; non poteva esser morta un' idea che i secoli avevano radicata nelle coscienze, che la grandezza antica (Roma) aveva tramandata in retaggio, che era presente nelle leggi, che riempiva di sé la tradizione, che pervadeva la letteratura e le scuole di diritto, che tante passioni aveva destate, tante lotte suscitate, tanto sangue fatto spargere; non poteva esser morta anche perché all'autorità imperiale pensavano con nostalgia, nell'anarchia presente, molti spiriti indipendenti, non accecati da sentimenti faziosi, e perché la politica ingiusta di Bonifazio VIII e le intemperanze dei Neri avevano non pochi uomini fatto volgere dall' idea guelfa alla ghibellina. 
Fra questi il più grande dei nostri poeti, DANTE ALIGHIERI; la sua voce si fa interprete del sentimento di tutti coloro che piangono la patria perduta e invocano, per il bene di essa, la fine delle discordie civili. Per l'Alighieri l'impero non ha più l'aspetto di tirannide come era stato una volta considerato, ma acquista il simbolo di pace e di libertà e si presenta come tutta una cosa col diritto di Roma; per lui l'impero — scrive il Carducci — « significa il dominio del popolo romano sopra la terra, e nell'imperatore, di qualunque nazione sia, egli vede trasferita la maestà del popolo romano. Giardino dell' Impero è l'Italia, non la Germania; e di qui il principe romano distende lo scettro su tutte le altre monarchie e su tutti i popoli, intendendo fare del mondo una cristiana repubblica, della quale siano mèmbri tutti gli Stati, dal Regno di Francia al più piccolo Comune italiano".

Certe teorie, Dante le espose in un trattato (De Monarchici) esse troveranno conferma nell'alta poesia della Commedia, in cui il poeta aveva lanciato l'appello supremo al morto Alberto "...Vieni a veder la tua Roma che piange Vedova e sola, e dì e notte chiama: Cesare mio, perché non m'accompagne": e si era rivolto agli stessi signori e ai popoli d'Italia scrivendo loro: « Ecco ora il tempo propizio in cui i segni spuntano della consolazione e della pace; chè il nuovo giorno splende mostrando l'alba, da cui son diradate le tenebre...».

Ora morto Alberto, l'incoronato Enrico aveva dunque fatto annunziare che veniva in Italia come messo di pace e come tale ansiosamente lo aspettavano tutti coloro che da lui attendevano giustizia. Un po' meno lieti furono i signori dell'alta Italia che temevano di perdere quei vantaggi che nell'anarchia si erano presi da soli; e ci fu perfino che propose di sbarrare le Alpi alla discesa di Enrico. Ma come sempre accadeva, dopo tante riunioni, alcuni si riserbarono libertà d'azione, il che significava chiaramente che quei signori speravano di acquistarsi il favore dell'imperatore e per mezzo di esso non perdere la propria posizione. Banderuole insomma. Qualche ghibellino per reazione diventò guelfo, ma molti guelfi si misero la (opportunistica) casacca di ghibellino.

Nell'estate del 1310 Enrico VII si recò a Losanna, dove si raccoglievano le sue milizie, e qui ricevette gli ambasciatori di molte città italiane venuti ad ossequiarlo e a presentargli ricchi doni: mancavano quelli di Firenze, di Siena, di Lucca e di Bologna, che avevano preparati gli ambasciatori, ma, avendo saputo che l' imperatore si proponeva di fare rientrare nelle città gli esuli, non li fecero più partire; si dice anzi che Betto Brunelleschi esclamasse: « mai per niun signore avere i Fiorentini inclinato le corna ». Pisa, lietissima, mandò invece un donativo di sessantamila fiorini d'oro. Anche i legati di Clemente V ricevettero Enrico di Lussemburgo e nelle loro mani giurò devozione alla Chiesa, confermò tutti i privilegi che le avevano concessi i suoi predecessori e s'impegnò di non esercitare alcuna giurisdizione sui domini della Santa Sede. Buone insomma erano le intenzione, del resto a lui conveniva, era l'appoggio del papa se lui otteneva successo.

Verso la fine del settembre Enrico VII mosse da Losanna, con un seguito di circa duemila cavalli, alla volta d'Italia ; il 24 ottobre 1310 giunse a Susa, il 30 entrò a Torino. Qui l'imperatore ricevette un'ambasceria romana, fra cui erano i capi delle fazioni di quella città, i Colonna, gli Orsini, gli Annibaldi, la quale ambasceria da Torino proseguì per Avignone per andare a pregare il Pontefice di fare ritorno all'antica sede del Papato. Anche Enrico mandò ad Avignone un'ambasciata, per invitare il Papa a recarsi a Roma ad incoronarlo o, in sua sostituzione, a inviare cardinali con pieni poteri. Clemente V si scusò di non potere andare in Italia adducendo come motivo il concilio che aveva convocato a Vienne, ma promise che avrebbe inviato tre cardinali a celebrare l' incoronazione. A Torino l'imperatore ricevette inoltre parecchi signori dell' Italia superiore che gli recarono buon numero di milizie e gli presentarono i loro omaggi; nei due mesi ch'egli rimase in Piemonte, con l'aiuto di Amedeo V di Savoia -che gli era largo di consigli- iniziò la pacificazione e la restaurazione dell'autorità imperiale, tolse dalle mani dei signori ogni potere, ordinò che fossero riammessi nelle città gli esuli e mise nei comuni suoi vicari che in suo nome governassero e vi amministrassero la giustizia. Nessun ostacolo incontrò in quest'opera Enrico VII: i vicari venivano accolti con gioia; i signori deponevano spontaneamente i loro poteri; nelle città da lui visitate il Popolo lo accoglieva con manifestazioni di giubilo riguardandolo come l'angelo della pace. Egli fu a Casale, a Vercelli, a Novara e ad Asti. In quest'ultima città venne ad unirsi a lui Matteo Visconti, che lo eccitò a recarsi in Milano, dove Guido della Torre si trovava in una situazione spinosa: egli aveva stretto alleanza con le città toscane per opporsi all'imperatore, ma quando ebbe saputo che la maggior parte dei signori era andata a fare omaggio al sovrano, inviò anche lui ambasciatori con promessa di obbedienza; ora però, sapendo presso la corte imperiale il suo nemico Visconti e vedendo che i signori venivano privati del potere, non sapeva se gli convenisse fare atto di sottomissione o schierarsi apertamente contro Enrico VII. Chi lo fece decidere fu il contegno del popolo milanese che non faceva mistero della propria simpatia per l'imperatore. Il Torre andò a incontrarlo il 23 dicembre quando Enrico giunse in vicinanza della città, s'inginocchiò davanti al sovrano ed umilmente gli baciò un piede. Quel giorno stesso Enrico VII fece il suo solenne ingresso in Milano, dove fu il 6 gennaio del 1311, incoronato nella basilica di Sant Ambrogio.

Fu una incoronazione cara. Com'era costume bisognava fare un donativo all'Imperatore. Il Consiglio con il Purterla a capo propose 50.000 fiorini, il Visconte per guadagnarsi la simpatia di Enrico, propose un donativo in più, di diecimila fiorini per l'imperatrice, e Guido della Torre, non si sa se ironicamente o sul serio, disse che la cifra si dovesse portare a centomila. Era una somma enorme e il senato per disporla inasprì le tasse ai cittadini suscitando un malcontento generale, che aumentò quando l'imperatore, per scendere verso Roma con un magnifico seguito chiese che lo accompagnassero ventiquattro nobili ghibellini ed altrettanti nobili guelfi tra cui Galeazzo Visconti e Francesco della Torre, figli di Matteo e di Guido e poiché parecchie delle persone scelte si lamentavano di non poter far fronte alle spese, il sovrano ordinò che il loro equipaggiamento fosse provveduto da tutta la cittadinanza. Altre tasse. A quel punto mettendo da parte le liti e gli odi i Torriani i Visconti e i milanesi, presero accordi per cacciare il Tedesco. Il complotto fu scoperto, e pagarono caro la congiura. (vedi la cronaca nel link già indicato sopra)

Dominata la situazione in Alta Italia, Enrico rivolse le stesse attenzioni prima a Genova poi alla Toscana dove anche Robertò d'Angiò aveva le sue mire. In Toscana prima e a Roma poi, ci furono doppi giochi sporchi. A Roma dove poi era sceso per farsi consacrare imperatore in S. Pietro, Enrico, trovò la città in mano ai suoi avversari, e perfino S. Pietro era occupata. Gli imperiali scatenarono una guerra, ma alla fine Enrico soccombente dovette rifugiarsi a Tivoli.
Contro di sé aveva ormai Roberto d'Angiò, metà Roma e quasi tutta la Toscana e la Romagna. Se proprio non era in trappola poco ci mancava.

A Tivoli — scrive il Bertolini — «...Lo colsero nuove difficoltà. Il Papa, che fino allora aveva sostenuto una doppia parte verso Enrico, incoraggiato dai successi conseguiti dai Guelfi, levò la maschera, e diresse all'imperatore uno scritto dettato nello stile e con le idee di Ildebrando. Il Papa esponeva, cioè, la pretesa che Enrico si obbligasse a non portare mai le armi su Napoli, a concludere con quel re un armistizio per un anno, a uscire da Roma subito dopo la sua incoronazione (la lettera papale era giunta ad Enrico tardivamente), e a non fermarsi fino a che non fosse uscito dal territorio della Chiesa. E rincarando la dose delle sue pretese il Papa ordinava all'imperatore di restituire i prigionieri e le torri di Roma venute in suo possesso, e di dichiarare con pubblico strumento, che gli atti di sovranità compiuti in Roma non creavano all' impero alcun diritto su questa metropoli, né portavano alcun pregiudizio ai sovrani diritti del Pontefice".
Ci si chiede perchè allora lo aveva chiamato. Clemente giaceva malato, le sue vaghe speranze di restaurare lo Stato della Chiesa le aveva riposte nel nuovo re di Germania, ma poi le difficoltà in cui era caduto questi, e gli eventi a lui poco favorevoli, sollecitato da Filippo il Bello e ascoltando i Neri di Firenze, il papa era finito per schierarsi contro di lui.  Un'antimperiale insomma.

La lettera papale con l'ingiunzione, era stata recata ad Enrico a Tivoli subito dopo il suo arrivo in quella città. Oltre ai suoi consiglieri, la diede ad esaminare ai frati Minori, i quali avevano già aperto la loro crociata contro i possedimenti terreni della Chiesa. Nella risposta data dall'imperatore allo scritto papale, la quale era segnata da Tibur in urbe fratrum Minorum (1 e 6 agosto 1312), si scorge la collaborazione che vi ebbero quei frati liberali. Infatti, essa negava al Papa il diritto d'immischiarsi nelle cose civili, e affermava che l'imperatore per la elezione dei principi dell'Impero era nella sua piena potestà, onde il Papa non aveva alcun diritto di ordinargli che partisse da Roma, capitale dell' Impero.
Tuttavia con la situazione a Roma molto critica, l'imperatore il 19 agosto partì da Tivoli diretto nuovamente in Toscana, il 19 settembre Enrico giunse nei dintorni di Firenze per assediarla. Ma i fiorentini si erano attrezzati bene per difenderla, mentre invece la stanchezza, la sfiducia, le malattie, serpeggiavano nelle file imperiali; a queste si aggiunsero le diserzioni e la scarsezza delle vettovaglie di modo che verso la fine del 1312 Enrico VII tolse quella specie d'assedio e si trasferì a S. Casciano, donde il 6 gennaio del 1313 andò a Poggibonsi, due mesi dopo era a Pisa era deciso oramai a muover contro Roberto, che considerava come il suo maggior nemico ed il principale sostenitore delle città guelfe, specie di Firenze che lo aveva nominato rettore, protettore, governatore e signore della repubblica.

Ma quando Enrico si mosse ed era giunto giunse nelle vicinanze di Siena per un male, che da tempo lo travagliava, fu costretto a fermarsi a Buonconvento. Qui dovevano improvvisamente aver fine le speranze dei Ghibellini e il sogno imperiale di Dante. 
Il 24 agosto del 1313 Enrico VII moriva, e la sua morte fu così inaspettata che si sparse la voce, non confermata del resto da alcun documento, che l'imperatore fosse stato avvelenato.
Con lui svanirono i sogni dei Ghibellini che come Dante avevano visto nell'imperatore tedesco il salvatore di un'Italia; e che invece in breve tempo ricadde nell'anarchia. 
Mancando il condottiero l'esercito tedesco si disperse; alcuni soldati imperiali fecero ritorno in Germania, ma un buon numero di loro rimasero in Italia al servizio della repubblica di Pisa e costituirono la prima di quella compagnie di ventura che tanto danno doveva poi arrecare alla penisola. 

I Guelfi invece alla notizia di quella morte gioirono e festeggiarono, e il papa colse la (inopportuna) occasione per nominare vicario imperiale Roberto d'Angiò, ma il re di Napoli tutto intenzionato a fare i propri interessi (il primo: quello di far guerra al successore Federico per diventare così padrone di gran parte d'Italia) aveva già avocato a se il potere imperiale rimasto vacante con la morte di Enrico. Lui nella sua testa aveva grandi progetti.
Quello di Clemente V, fu il suo ultimo atto di debolezza. Lui era minato fin da quando era salito sul soglio da una male incurabile, e in questi critici tempi si era ritirato a Carpentras, dove a Roquemaure il 20 aprile 1314 morì. Moriva il Papa che aveva resa affarista di Filippo il Bello la Chiesa, che aveva proclamato la soppressione dell'Ordine dei Templari al solo scopo di incamerare le grandi ricchezze da questi possedute, e chiamando in Italia il tedesco, aveva fatto correre rischio al Papato di vedere restaurata in Italia la sovranità imperiale.

« Clemente V — scrive il Sismondi — aveva accumulate grandi ricchezze vendendo i benefici ecclesiastici e con altri scandalosi affari venali che lo resero odioso ai suoi contemporanei. Oltre il denaro che teneva nei forzieri, aveva arricchito tutti i suoi congiunti e i familiari: cinque di loro li aveva fatti cardinali e ammessi al Sacro Collegio, parecchi altri furono corredati di episcopati e taluni di ricchi benefici; ma le sue generosità non gli avevano procurato l'affetto di nessuno: appena morto, tutti quelli che abitavano nel suo palazzo si scagliarono sui suoi tesori, come su una preda legittima; e fra tanti non vi fu un solo fedele servitore che si prendesse cura del cadavere del padrone; tanto che, essendo caduti alcuni ceri accesi intorno al feretro,si sviluppò un incendio, il quale, divampando nell'appartamento, fece accorrere finalmente i servi, che lo spensero; ma ormai il palazzo e ogni stanza erano stati talmente svaligiati che non vi si trovò altro che un logoro mantello per ricoprire il corpo mezzo bruciato del più ricco Papa che avesse governato la Chiesa ».  

Pochi mesi dopo moriva anche Filippo il Bello. Per lui, Clemente aveva compiuto non solo atti di debolezza, ma si era piegato fino al limite estremo del servilismo. Il re di Francia aveva un implacabile rancore e una insaziabile brama di vendetta verso Bonifacio VIII. Voleva cancellarne la memoria per i posteri e quando nel concilio fu intentato il processo contro di lui, a esserne complice fu proprio Clemente, che con una bolla del 27 aprile 1311 ordinò che si cancellassero tutti gli atti di Bonifacio VIII, che suonassero pregiudizio e disonore verso il re francese. E sotto pena di scomunica ordinava ai notai e ai giudici di distruggere tutte le copie di quegli atti pontifici. Il regesto di Bonifacio fu quindi diligentemente raschiato nelle pagine che contenevano parole ritenute offensive o dannose a Filippo il Bello.
Paolo Tosti, quando vide quelle pagine ne ebbe una dolorosissima impressione: "fu una miserabile vista vedere quelle pagine rase per violento imperio del Bello, e piansi più per la fiacchezza di quel pontefice che su la tristizia del Principe".

Altri più benevoli, affermano che essendo infermo già al momento della sua elezione non gli fu possibile ribellarsi alle prepotenze del suo patrono e tiranno. Ma allora perchè in tutta coscienza condurre un pontificato senza piena libertà d'azione? Sarebbero semmai ancora più gravi perchè irresponsabili le manovre da lui architettate pur cosciente delle sue incapacità fisiche. A sua futura memoria iniziò e lasciò la fastosa costruzione di Avignone che nel corso del settantennio con gli augusti abitatori sorse in un misto di reggia e fortezza. "Il Vaticano avignonese costruito sul colle del duomo fu uno dei più poderosi monumenti del medio evo, e dura ancora con merli e torri, tetro e grandioso, ma morto e vuoto come un sepolcro di faraoni" (Gregorovius, Storia di Roma, VI, 254).
Il suo successore, anche lui si insediò (per diciotto anni) ad Avignone, continuando a erigere il grandioso palazzo che fu poi ancora ampliato dai successivi cinque papi. Nei dintorni i cardinali costruirono bellissime ville e palazzi ove si diedero convegno le più raffinate mondanità.

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