Quelle lacerazioni e palesi ostilità che nei mesi precedenti con un singolare compromesso erano poi state - dalle tre potenti famiglie romane (Savelli, Colonna, Orsini) - composte e placate ma non del tutto eliminate, ricominciarono quasi subito a riaggravarsi, e non alla dipartita di Niccolò, ma mentre questi si trovava ancora in agonia. Gli Orsini e i Colonna, ognuno di loro iniziò subito a ingraziarsi o a essere ostili con i cardinali del Sacro Collegio che nell'imminente conclave avrebbero dovuto eleggere il nuovo pontefice. I cardinali erano dodici, due francesi e dieci italiani, di cui sei di Roma, con la metà a favore di una famiglia e l'altra metà dell'altra.
Niccolò era poi spirato il 4 aprile 1292; i cardinali che si erano riuniti a quel gravoso compito di dargli un successore dentro Santa Maria Maggiore, armeggiarono fino a luglio, senza però trovare un accordo. Poi, come si era verificato nel precedente conclave quando fu eletto Niccolò, anche questa volta nell'afoso luglio romano, scoppiò nuovamente un epidemia, questa volta di peste. Memori di quel drammatico precedente (dove erano morti 6 cardinali), quando uno di essi - il cardinale francese Cholet - si ammalò e morì, gli altri, terrorizzati, abbandonarono precipitosamente il luogo per tornarsene a casa. Chi a Rieti chi ad Anagni. Mentre i sei romani, pur tornandosene pure loro a casa, non si mossero da Roma. O meglio i Colonna e gli Orsini non si mossero per non lasciare in mano all'avversario la città.
Anche questa volta, cioè solo dopo l'inverno inoltrato, nel febbraio del 1293, il collegio cardinalizio tornò a riunirsi frettolosamente, ma non per il conclave, ma per decidere in quale località tenerlo; non ne volevano sapere di tornare a rinchiudersi sull'Aventino che sembrava un posto maledetto.
Ma anche per fare questa semplice scelta non si trovarono tutti d'accordo. Alle porte c'era ormai un'altra estate, e ritennero cosa saggia di rimandare tutto in autunno. Ma anche in questa riunione non si giunse alla pur minima indicazione; le discussioni si prolungarono poi - come vedremo avanti- fino all'inizio del successivo anno 1294 ma senza costrutto.
Erano ormai passati quasi due anni dalla morte di Niccolò IV, e qualcuno immaginò che se si andava ancora avanti così con la "sede vacante" a oltranza, vi era il timore non infondato di uno scisma nella stessa Roma. Fra timori e chiacchiere, come abbiamo visto sopra, i cardinali avevano fatto passare la seconda estate, e solo in ottobre del 1293 i cardinali si erano trovati a Perugia.
Nel frattempo, cioè nel corso dello stesso anno, scadute anche le cariche senatorie, nel clima pacifico della Pasqua 1293, un Colonna e un Orsini si misero anche questa volta d'accordo e arrivarono a un compromesso, a un patto di reciproca neutralità e entrambi (ti pareva!) salirono in Campidoglio a fare i Senatori e a cercare di rimettere ordine alla città, che ormai era diventata una jungla; con le autorità assenti, ognuno si comportava da padrone, cioè da delinquente, saccheggiando palazzi, e perfino chiese, oppure, riunendosi in bande organizzate, queste si affrontavano nelle vie per il dominio di certi quartieri.
Quanto ai cardinali, nemmeno nell'incontro di Perugia in ottobre elessero un papa. Intanto la situazione fra Angioini e Aragonesi non si era fatta per nulla chiara, ma entrambi non essendoci più da due anni il papa a lanciare anatemi o a tessere trame pro e contro di loro, riuscirono comunque a convivere senza grandi scontri bellici. Anzi avevano trovato un punto d'incontro nelle spartizioni, ma perchè avesse valore un qualsiasi trattato occorreva l'approvazione di un papa, che seguitava a non esserci.
Tuttavia il più zelante a darsi da fare - anche perchè era sul luogo - era Carlo II
d'Angiò (lo Zoppo) e il figlio Carlo Martello; del resto dal papa lui aveva avuto l'investitura ed è chiaro che aspettava un papa filo-angioino che riconfermasse la vacillante corona che portava in testa. Carlo mentre i cardinali erano a Perugia, si portò in questa città col figlio ed entrò spudoratamente nella sala delle adunanze dei conclavisti (mai nessuno lo aveva fatto prima di allora) con l'intento di sollecitare ma anche spingere i conclavisti ad eleggere un papa, ovviamente a lui favorevole. Fra i cardinali italiani giganteggiava il cardinale BENEDETTO CAETANI di Anagni, il quale a quella invasione di campo e a quelle sollecitazioni, indignato, rispose con tutta la sua fierezza di uomo di chiesa, di dotto, di giureconsulto e di canonista. Gli disse perfino di "...farsi gli affari suoi a casa sua e di stare alla larga dalle vicende della Chiesa". Ma quello invece di tornarsene a Napoli fece uno strano viaggio, pellegrinaggio nei pressi della Maiella, a Sulmona.
Anche in questa riunione perugina non si combinò nulla. I mesi passarono, si entrò nell'anno 1294, e finalmente i cardinali si convinsero che un papa bisognava pur farlo.
La sollecitazione nel conclave ai cardinali non arrivò dalle dirette interferenze angioine, ma da un un eremita Pietro da Morrone (Pietro Angeleri) , che dal suo isolamento ascetico, in odore di santità per i fatti miracolosi a lui attribuiti, profetizzando, minacciava divini castighi alla Chiesa se non si fosse provveduto all'elezione del papa entro il 1° novembre.
La lettera di Pietro fu portata a conoscenza dei conclavisti riuniti dal cardinale latino Malabranche, che aveva una venerazione per quel santo uomo, figlio di poveri contadini, il penultimo di undici figli, nato negli Abruzzi, che da giovane si era fatto benedettino, poi spinto dal misticismo, si era chiuso nella solitudine in un misero eremo, quasi inaccessibile, sul Monte Morrone a Palleno (oggi Porrara, fra Sulmona e Castel di Sangro) in una grotta scavata con le sue stesse mani su una roccia a stappiombo, sulla parete dell’Orso, alla Ripa Rossa, sempre in fuga dalle fastidiose turbe di fedeli poveri, infermi, disperati che, attratti dalla sua fama di taumaturgo, insediavano la sua solitudine.
Tuttavia più a valle diede vita a una comunità di "poveri eremiti" con una regola molto rigida. Sulla Maiella (ma senza mai abbandonare il suo solitario eremo) aveva poi fondato il "convento dello Spirito Santo" e lì era nata e cresciuta questa congregazione di religiosi, poi in seguito chiamati i "Celestini".
A dire il vero tale fame di taumaturgo, non era vista di buon occhio dall'episcopato; era del resto il periodo che nascevano come funghi le sette ereticali, i
cosiddetti "sovversivi" della Chiesa, e quindi a ragione la sua congregazione - invisa alle gerarchie ecclesiastiche - fu minacciata di essere soppressa al Concilio di Lione nel 1273. Come aveva fatto a suo tempo S. Francesco, l'eremita per sostenere la causa della sua Congregazione compì un'impresa leggendaria, a piedi nudi, d'inverno, attraversando le Alpi, comparve al Concilio Lionese presieduto da Gregorio X, che colpito dall'alta religiosità del frate ritenne di poterlo escludere dalla lista dei "sovversivi".
Torniamo alla lettera: sembra che la minacciosa e profetica missiva giunta al conclave di Perugia, fosse stata sollecitata da Carlo, con quello strano viaggio-visita fatta all'eremita,dopo l'onta subita a Perugia, e dopo essersi come un penitente arrampicato sulle rocce del nuovo eremo di Pietro a S. Onofrio; e il monaco pur non prendendo una chiara posizione, quella pia visita del preoccupato re, con l'animo crucciato, e con chissà quali ambigue promesse, indubbiamente anche se con lui inconsapevole lasciò un segno che si riversò nella lettera del frate in quella minacciosa sollecitazione. Quando i cardinali si decisero a fare un nome, la proposta fatta dal Malabranche ai suoi colleghi fu quella di ritenere che la persona più degna a fare il vicario di Cristo era proprio l'eremita. Ci furono perplessità dei cardinali per la sua inesperienza, perchè i complessi affari di Curia nella logica di questa, non erano di sicuro un elemento distintivo del monaco, così estraneo alle cose del mondo e per di più alla bella età di quasi 70 anni.
Tuttavia quel nome prese il sopravvento, all'unanimità, forse per la limpida religiosità dell'uomo, o forse perchè si andava incontro ad un'altra torrida e famigerata estate (la terza), o forse perchè il potente e freddo calcolatore cardinale Benedetto Caetani, era convinto che una volta messo il monaco sul soglio, abbisognando questi di un consigliere, proprio lui avrebbe potuto esercitare una decisiva influenza sul pio uomo negli affari curiali.
Il 5 luglio, dopo ventisette mesi di "sede vacante", il monaco fu eletto. Alcuni espressero dei dubbi che il frate non avrebbe accettato quella nomina di così altissima responsabilità. Ed è curioso che nessuno dei presenti volle assumersi il compito di andare a comunicargli nella sua grotta di eremita l'altissima dignità a cui era elevato. Furono alla fine incaricati tre vescovi, con al seguito una processione di popolo, che s'ingrossò man mano quando nei dintorni si sparse la voce. Molti dissero che era un prodigio, un miracolo, una "ispirazione" venuta dall'alto dei cieli ai cardinali. All'incontro era presente il giovane figlio del senatore allora in carica, Iacopo Stefaneschi, e fu lui a lasciare in versi, i momenti toccanti dell'annuncio fatto all'eremita. E questi alla lieta novella oltre che essere sorpreso, ebbe un vero e proprio dramma interiore.
Se si rifiutava era allora inutile poi lamentarsi - come aveva fatto nella lettera - che la Santa Sede fosse mancante di un papa. La provvidenza aveva deciso così, e quindi non si poteva rifiutare. Certo che quando si rendeva conto del gravoso impegno che doveva assolvere, veniva preso dal panico. Si chiedeva: "chi mi darà il sapere, la saggezza, l'esperienza che mi manca?; e una volta a Roma di chi mi posso fidare come consigliere".Alla fine - illudendosi di poter dare un contributo alla risoluzione della crisi generale della chiesa, o forse perché non aveva capito le strumentalizzazioni che si stavano operando dietro la sua nomina, si fece convincere ad accettare. I cardinali lo aspettavano a Perugia, invece lui li convocò all'Aquila, perchè così voleva Carlo che insieme al figlio si era nuovamente arrampicato fino alla grotta dell'eremo, e Pietro non avendo altri accanto, al re e al principe ingenuamente si affidò per i consigli. Del resto Carlo era un sovrano creato dal suo predecessore, e il monaco era pur sempre un suo suddito, quindi e un certo spirito di obbedienza stava nella logica delle cose.
Quando scese a valle all'appuntamento con i cardinali per andare a prendere la tiara, lo fece con una tale umiltà che i confratelli che lo seguivano e il popolo che aveva improvvisato una imponente processione lo paragonarono a Gesù Cristo quando fece il suo ingresso a Gerusalemme. Con la sua povera tonaca era salito in groppa a un asino, e questo aveva alle briglie il re e il principe.
All'Aquila l'accoglienza fu imponente, tutti volevano vedere quell'umile monaco in odore di santità che stava per essere incoronato papa.
La consacrazione avvenne il 29 agosto 1294 alla chiesa di S. Maria di Collemaggio. Pietro assunse il nome di CELESTINO V.
Non avendolo il re e il principe mai mollato, Celestino iniziò il suo pontificato in piena dipendenza da Carlo. Ripristinò immediatamente la costituzione di Gregorio X sull'elezione pontificia; fece di Carlo il "mareciallo di un futuro conclave; nominò dodici cardinali, tra i quali 6 francesi (quindi filo-angioini), quattro dell'Italia meridionale (anche questi sotto il regno di Carlo) e due della sua stessa congregazione.
Riprese poi in mano il trattato che il suo predecessore non aveva ratificato, quello di Carlo con Giacomo d'Aragona, con il quale quest'ultimo benevolmente cedeva la Sicilia all'angioino. Cosa che Niccolò non aveva ratificato perchè la Sicilia non era nè di uno nè dell'altro, ma della Chiesa. Celestino invece, non sappiamo con quanta sua autonomia, con un trattato segreto, stipulato poi a Junquera a novembre ratifico il trattato tra Carlo e Giacomo.
In questo trattato, l'Angioino prometteva di riuscire ad ottenere dal Papa all'Aragonese l'assoluzione dalla scomunica, il perdono delle offese recate alla Santa Sede, la restituzione del reame di Aragona e la rinuncia del re di Francia e di Carlo di Valois; Giacomo a sua volta si obbligava di restituire gli ostaggi che Carlo aveva lasciati in mano d'Alfonso al tempo della sua liberazione, le Calabrie e le isole presso Napoli; quanto alla Sicilia e a Malta s'impegnava di darle alla Chiesa nel termine di tre anni, usando contro i Siciliani anche le armi se si fossero opposti.
Infine, appena eletto, invece di scendere Celestino a Roma come desiderava, e ovviamente lo desideravano i Romani orfani di un papa da due anni, Carlo convinse il papa a trasferire la sede della Curia a Napoli, dove giunse nell'autunno fissando la sua residenza al Castelnuovo.
Preso dentro questa morsa angioina, Celestino che non aveva cessato anche nel suo palazzo di fare l'eremita (si era fatto costruire una piccola cella dove si rifugiava a pregare in ascetica solitudine), i dubbi che aveva già espresso si fecero ancora più grandi. Forse si avvide che stava esercitando il potere venendo meno ai più semplici dettami della morale cristiana. Faccendieri del re gli facevano firmare bolle in bianco per poi concludere chissà quali turpi affari. Lui trovò la forza di opporsi a questo scempio.
Inoltre a Roma - sede naturale della cristianità - il trasferimento del papato a Napoli, era stato oggetto di contestazioni, tali da riunire anche i più acerrimi avversari su un unico fronte: quello anti-angioino.
Per l'una e l'altra ragione, Celestino iniziò a maturare l'idea di rinunciare alla dignità pontificia. Sapeva che abdicare era cosa difficile e contro il costume. In un primo momento voleva trasformare tre cardinali come suoi reggenti nel governo della Chiesa, poi chiedendo al Caetani se era contemplata nella giurisprudenza canonica una vera e propria abdicazione, ricevutane conferma che era legittima, a quattro mesi dalla sua nomina, il 13 dicembre 1294 riunito un concistoro lesse la formula della sua abdicazione. Forse Dante fu ingeneroso con lui quando lo liquida come "colui che fece per viltade il gran rifiuto....". Non conosceva i particolari, e non fu la viltà a fargli fare il gran passo.
La formula della sua abdicazione non l'aveva stilata lui, ma lo stesso Caetani, che apparve piuttosto subdola quando lo stesso Caetani uscì poi dal nuovo conclave con in testa la tiara con i voti dei cardinali francesi e filoangioni.
Non solo, ma una volta divenuto lui il Pontefice, temendo che i suoi avversari convincessero il santo monaco a tornare sul soglio (esautorando così lui), gli impedì di rifugiarsi nel suo isolato eremo come Celestino desiderava fare. Poi non volendo perderlo di vista, quando il monaco volle tentare di allontanarsi per rifugiarsi in Puglia e di qui imbarcarsi per la Grecia, il 16 maggio 1295 il Caetani lo fece con un prestesto fernare e sotto scorta come un delinquente fu portato prima a Capua e poi da lì ad Anagni, dove aveva la sua residenza il cardinale; questi rinchiuse il frate nella rocca di Fumone, sopra Ferentino, dove l'anno dopo, il 19 maggio 1296, dopo trecentodiciannove giorni di carcere, Celestino morì.
La verità su questa morte è piena di ombre, e il dubbio che sia stato barbaramente assassinato, non è si è mai attenuato. Il "Delitto
Clestino" è ancora oggi oggetto di accuratissime indagini.
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