Niccolò era appena spirato ( il 22 agosto 1280) e già a Roma erano scoppiati tumulti. I nobili messi un pò da parte dal precedente papa, aizzando il popolo si levarono contro gli Orsini. A istigare gli animi plebei gli Annibaldi aiutato da uno stesso Orsini, Gentile figlio di Bertoldo, che in disaccordo con la famiglia (forse perchè era stato poco beneficiato) si era messo a parteggiare con gli avversari dei suoi parenti.
Riuscirono a cacciare dal senato i senatori e insediare Pietro Conti (fazione Riccardo Annibaldi) e lo stesso Gentile Orsini (il ribelle).
Ma non solo a Roma, anche a Viterbo, Riccardo Annibaldi, d'accordo con Carlo precipitatosi di persona nella città del conclave, strapparono la carica di podestà a Orso Orsini, con il preciso scopo di vigilare l'elezione del nuovo pontefice, che ovviamente doveva essere come voleva Carlo, cioè un francese. Ma più che vigilare, il palazzo del conclave dov'erano riuniti i cardinali, lo assalirino, s'impadronirono di due cardinali Orsini, Matteo e Giordano, li maltrattarono e li rinchiusero in una stanza impedendo loro di partecipare al conclave, con l'accusa di essere dei perturbatori (erano italiani!). Quello inglese, Roberto arcivescovo di Canterbury, non sappiamo come e in che modo, ci lasciò pure la vita (un altro perturbatore in meno - qualcuno disse avvelenato).
Incitando il suo partito e i suoi alleati, Carlo tentò con ogni mezzo per avere un papa francese. Con tale influenza ma anche con le palesi continue minacce, gli impauriti cardinali alla fine, il 22 febbraio 1281, più che eleggere (ci tenevano ad uscire dal conclave vivi) costrinsero un cardinale francese, Simone de Brion, ad accettare la nomina.
Su questo prelato Carlo d'Angiò poteva tranquillamente contare; infatti era stato proprio lui, incaricato da Urbano IV a portare avanti le trattative per l'investitura feudale dell'angioino. Lui del resto, tutta la sua carriera ecclesiastica l'aveva svolta in Francia, arcidiacono e cancelliere di Tours, poi tesoriere di S. Martino nella stessa città, ed era stato perfino assunto dal re di Francia Luigi IX (ricordiamo, fratello di Carlo
d'Angiò) come consigliere, diventando suo cancelliere e guardasigilli.
Ma a dire il vero non è che accettò con entusiasmo la nomina, e non era falsa modestia, forse - in un lampo di dignità - era cosciente che il suo nome era stato fatto solo per essere un facile strumento nella mani di Carlo, e se ne rese subito conto quando dallo stesso angioino fu costretto ad accettare la tiara e a lui sottomettersi.
Questa sottomissione fu anche eccessiva, perfino indegna, e l'angioino non si lasciò scappare l'occasione di abusarne nei quattro anni di pontificato, che andarono a vanificare tutta l'opera di Niccolò. Non si sa con quali mezzi, ma per il comportamento che assunse, questo papa dovette essere letteralmente plagiato dall'angioino, perchè iniziò a fare una serie di gravissimi errori che ridussero quella potente Chiesa riedificata da Niccolò, a una semplice parrocchia.
Inoltre questi gravissimi errori ebbero una gravissima conseguenza: causò la separazione Regno di Sicilia dal Regno di Napoli che sarebbe durata fino al 1816. Se nel suo disegno Niccolò aveva tracciato solo dei segni su una parte della penisola, Martino vi lasciò tracciato su metà di essa un profondissimo solco che durò oltre 500 anni.
Quando Simone de Bion uscì da conclave con la tiara di papa, a Viterbo scoppiarono subito tumulti, e per prima cosa ciò che lui fece, fu quella di lanciare un interdetto sulla città e a rifugiarsi ad Orvieto. Fu infatti, consacrato proprio in questa città il 23 marzo 1281 assumendo il nome di papa MARTINO IV.
Come di solito avveniva a Roma, il popolo infervorato da Riccardo Annibaldi, voleva il papa a Roma, e non solo per accoglierlo come pontefice ma voleva addirittura dargli la carica di Senatore. Non sappiamo chi ebbe questa idea, ma sappiamo che Martino all'inizio si mostrò titubante, poi l'accettò, ma per passarla a Carlo
d'Angiò, che così la ebbe aggirando la famosa nuova costituzione che Niccolò III aveva introdotto con la "Fundamenta militantis ecclesiae", dove si affermava che la carica di Senatore non poteva essere concessa a uno straniero, nemmeno se re o imperatore, ma solo a cittadini romani.
Con un così servile papa, Carlo e il partito guelfo tornarono a dominare non solo a Roma ma anche dalla Sicilia alla Lombardia; in tutte le città della penisola tutti i poteri tornarono ai Guelfi-angioini. Solo in Romagna tenne duro il ghibellino Guido da Montefeltro. Cosicchè la Chiesa oltre a non aver più in mano gli altri territori, neppure in Romagna contava più nulla.
Ma il servilismo del papa andò oltre. Quando Carlo riprese in considerazione le sue mire sull'impero bizantino, nell'allestire la spedizione, Martino lo aiutò con i denari delle decime di sei anni raccolte in Sardegna e in Ungheria e che dovevano servire per una nuova crociata in Terra Santa.
Non solo, ma prendendo a pretesto la disunione delle due chiese d'Oriente e Occidente, scomunicò l'imperatore Paleologo Michele VIII, reo di essere il promotore di eresie e quindi lui il responsabile dello scisma. E se prima con il suo
predecessore la questione stava quasi componendosi, con la scomunica lanciata da Martino lo scisma divenne ancora più netto e insanabile, perchè parlava di eresia.
Tutto questo a Carlo serviva per dare una giustificazione anche di carattere religioso alla spedizione che stava preparando contro i Bizantini, cioè una vera e propria Crociata contro gli eretici bizantini, anche se lo scopo primario era quello di mettere sul trono di Costantinopoli il marito di sua figlia Beatrice, Filippo, figlio di Baldovino II.
Carlo d'Angiò stava ormai guidando tutta la politica in un modo egemonico, e Martino lo stava aiutando in tutti i suoi progetti mandando in rovina tutta l'opera di Niccolò, e non solo l'opera ma anche la stessa Chiesa.
Ma prima che tale egemonia angioina sbarcasse anche in Oriente, accadde un fatto che la rimise tutto in discussione, anche se in parallelo ci furono i lati negativi.
Già l'Angioino aveva contratto alleanza con i Veneziani, già un corpo di tremila uomini era sbarcato nelle coste dell'Albania, già molte migliaia di cavalieri e di fanti si concentravano a Brindisi, Taranto, Messina e Manfredonia e moltissime navi da guerra e da trasporto erano pronte a salpare dai porti del regno, quando un avvenimento, provocato dalla sua tirannide, fece svanire i suoi disegni di conquista, e lo costrinse ad un'altra impresa; e questa su invito del suono squillante delle campane di Palermo. Ma non solo Palermo, ormai tutta la Sicilia, più d'ogni altra in Italia sentiva il peso della feroce dominazione francese.
Da tutte le classi sociali erano sentite le conseguenze funeste del tallone angioino, sia dal clero, sia dalla nobiltà, sia dalla borghesia come dalla plebe. Carlo
d'Angiò, e i suoi nobili francesi cui aveva concesso tutte le cariche dell'amministrazione, non aveva risparmiato nessuno. Colpevole di essersi nel 1268 schierata con lo sfortunato ultimo principe svevo, la Sicilia conobbe una punizione ad
oltranza, più nulla fu rispettato, non leggi, non usi, non tradizioni; la violenza più crudele, le usurpazioni più sfacciate, la negazione d'ogni diritto furono innalzate dagli Angioini a sistema di vita e di governo. E la piaga più grossa erano i "Gabellieri" che oltre a riscuotere le inique tasse, la confisca dei beni - con un qualsiasi pretesto- l'avevano fatta diventare una infame arte.
"E se a ragione qualcuno parla, se qualcuno si lagna, e se subito non ubbidisce, questi tracotanti tipi sinistri ti alzano contro lo staffile, ti snudano il ferro della loro spada; loro sono sempre cinti di ferro, mentre sono inermi i cittadini per il rigoroso divieto di portare qualsiasi arma. E così percuotono, uccidono; e peggio del ferire, portano in prigione i cittadini che osano parlare; così alla violenza privata di quell'arrogante sgherro, subentra poi la violenza pubblica, e se non si ripara con il danaro all'oltraggio vero o falso (ma loro hanno sempre ragione, sempre creduti, il disgraziato suddito mai), il magistrato, invocando la legge e Dio, condanna a morte, alla prigione, all'esilio. E così un'altra confisca di beni è guadagnata per sua maestà il re!" (Così Michele Amari nella sua magistrale opera sulla "Guerra del Vespro siciliano").
"La giustizia così amministrata dai gregari iniqui e ingordi del re e dei suoi baroni si può facilmente capire a com'era ridotta, specie quando si pensi che ai giudici anziché dargli uno stipendio, a loro era chiesta una somma per la loro assunzione. Le somme versate se le dovevano poi procurare da soli con le loro sentenze, che erano sempre a favore di chi disponeva di tanti soldi e quindi poteva profumatamente pagare i corrotti giudici".
Né solo il popolo si lagnava, ma anche la nobiltà che doveva fornire le milizie feudali e le navi; e si lagnava il clero, prima quello basso, poi sempre di più anche quello alto del tutto esautorato.
Ma lagnarsi con il sovrano era inutile ed anche pericoloso; solo il Pontefice avrebbe potuto lenire gli affanni dei Siciliani, era stato del resto un Papa che aveva investito Carlo del regno, e a Carlo il Pontefice poteva toglierlo, così almeno pensavano i più ottimisti. Ma non avevano ancora conosciuto Martino, il servo dell'angioino.
Carlo per la sua ambiziosa spedizione bizantina voleva che anche gli isolani partecipassero alla guerra e i Siciliani invece non avevano nessuna voglia di battersi con i Bizantini, con i quali da qualche tempo erano in buoni rapporti per ragioni di commercio; inoltre a favore dell'odiato tiranno, non volevano di certo lasciar le famiglie ed i beni in balia dei ladri e oppressori governativi; né volevano affrontar la miseria, per quel misero soldo che l'Angioino forniva alle truppe per tre mesi soli e che poi spesso nemmeno pagava.
Carlo, sdegnato dalla riluttanza dei Siciliani alla spedizione, minacciava di passare nell'isola con tutto l'esercito radunato per la guerra, di sterminare gli abitanti e di ripopolarla con altre genti di stirpe diversa.
"Queste voci - citiamo sempre "Michele Amari" - si diffondevano con l'insensata millanteria e arroganza dei suoi serventi "padroni". Insomma in Sicilia albergava più solo il terrore.
Il viver di violenza, per sedici anni, aveva potentemente operato sull'indole, proprio per niente morbida, del popolo siciliano, e ne aveva modificate per fortuna solo le sembianze, perché la prima era rimasta sempre latente.
Ciò che era una volta festevole si era fatto tetro; sparirono i conviti, i canti, le danze, e "pendevano mute le arpe".
"Tutti i polsi battevano febbrili; i dubbiosi facevano scorrere i giorni, gli ansiosi riempivano le notti, e perfino i sogni erano turbati dalle minacciose sembianze degli oppressori; né si poteva vivere e neppure morire tranquilli. In cupe meditazioni, c'era la tristezza, la vergogna, un'animosità profonda, una volontà ardente di vendetta. Feroci passioni, che si propagavano a chi soffriva da sé per le ingiurie subite, o chi si tormentava nel vederle fatte ad altri; si diffondevano questi sentimenti negli svegli e nei ritardati, negli irascibili e nei muti, nei coraggiosi o nei paurosi; e coinvolse gente di ogni età, ogni sesso, ogni ordine di uomini. La foga delle passioni private, tutti i conti dei privati interessi, tacquero all' istante, o forse anche questi si rivolsero ad unico e universale pensiero, che era più possente di qualsiasi più forte congiura".
Questa era la Sicilia fino al 1282!
Questo clima, le trame e i preparativi per abbattere l'angioino
vi suggeriamo di leggerli qui nelle pagine dedicate in "Storia d'Italia"
Brevemente qui riepiloghiamo i fatti:
La misura abbiamo detto era colma, giunta al massimo era la tirannide, e così acuta l'angoscia e così profondo l'odio del popolo di Sicilia verso l'Angioino, che bastò una sola goccia per far traboccare il vaso; un ultimo sopruso, non certo il più perverso dei molti altri sofferti, doveva spingere gli esasperati Siciliani alla grande ribellione, e alla voglia incontenibile della vendetta.
Si era nei giorni dopo Pasqua dell'anno 1282,
era il martedì del 31 marzo…..
Qui le numerose pagine riassuntive dei "Vespri Siciliani"
Un mese dopo circa dai "Vespri" palermitani, quasi tutta l'isola fu libera dal giogo angioino, le città si diedero un governo repubblicano, si federarono tra loro e decisero a non ritornare più sotto l'odiata dominazione di Carlo; si prepararono dunque a fronteggiare un ritorno offensivo del re vettovagliando la strategica città di Messina per due anni e inviarono presidii di uomini e di navi a Siracusa, ad Augusta, a Catania, a Milazzo, a Patti e a Cefalù.
CARLO D'ANGIÒ si trovava presso il Pontefice quando gli fu portata la notizia della rivoluzione siciliana. Corse a Napoli e, informato della gravità della situazione, si diede a fare preparativi per risottomettere l'isola e richiese perfino l'aiuto di uomini e di denaro al re di Francia. Aiuti finanziari glieli fornì pure papa Martino IV sempre pronto a soddisfarlo, inoltre tentò a favore del re le armi spirituali, e, ad Orvieto, il giorno dell'Assunzione ordinò a tutta la Cristianità di non prestare aiuto di qualsiasi sorta ai ribelli siciliani e a questi minacciò la scomunica se non tornavano all'obbedienza dell'Angioino.
Ma i Siciliani non si lasciarono intimorire né dall'ira del sovrano né dalle minacce del Pontefice, al quale però con una relazione giustificarono la loro rivolta con una particolareggiata esposizione delle angherie angioine sofferte.
Vani sforzi questi di convincere un Papa che, come MARTINO IV, non era protettore degli italiani ma un ostinato protettore e -con i suoi denari e le sue scomuniche - pure fiancheggiatore di Carlo.
Tuttavia sia il Pontefice come il sovrano, insieme tentarono di riportare l'isola all'obbedienza con mezzi pacifici; il primo inviò come suo legato il cardinale GHERARDO da PARMA, il secondo promulgò uno statuto in cui, riversata la responsabilità del malgoverno agli ufficiali inferiori, "moderava", al dir dell'Amari, "i più grossi aggravi del fisco, dei magistrati e dei loro familiari, la crudeltà di alcune leggi, le usurpazioni dei castellani nelle faccende municipali, e loro violenze nei contadi". Ma non era con le lusinghe che Carlo poteva convincere e vincere i Siciliani. Lo comprese pure lui e con tutte le forze che aveva radunato per l'impresa a Costantinopoli le rivolse contro l'isola ribelle; e a Catona, in Calabria, posta davanti a Messina, radunò duecento navi e un poderoso esercito di quindicimila pedoni e sessantamila fanti.
Quando Carlo tentò lo sbarco a Messina con tutto il suo esercito il 25 luglio 1282, la trovò perfettamente in difesa e le milizie cittadine - formate da cittadini che non avevano mai prima di allora preso un'arma in mano - erano pronte a difendere "fino alla morte" la propria città; e per come poi andarono le cose, non era per nulla demagogica né campata in aria quella frase; mai fu usata con così tanta determinazione dalla popolazione di una città, che aveva davanti a sé duecento navi e settantacinquemila angioini, e che se fosse stata espugnata l'avrebbero ridotta in cenere.
La leggendaria battaglia di Messina vi suggeriamo di leggerla nella pagine indicate all'inizio.
Sotto le mura dell'eroica Messina fu punita l'arroganza angioina e tramontava da questo momento e per sempre la fortuna di Carlo, mentre contemporaneamente nell'altra parte dell'isola la rivoluzione prendeva tutta un'altra via, la repubblica che era sorta dopo il vespro, sboccava un'altra volta nella monarchia; pure questa straniera.
Purtroppo i nobili siciliani convinti di non potersi difendere da soli dagli angioini, avevano già in precedenza invitato PIETRO D'ARAGONA a recarsi sull'isola. Questi avuta poi notizia della rivoluzione che vi era scoppiata, il 5 agosto 1282 sbarcava a Trapani, poi da qui, il 4 settembre fece vela per Palermo, dove all'arrivo fu subito acclamato re di Sicilia e suo figlio Alfonso suo legittimo erede.
Così mentre Carlo abbandonava l'Isola, umiliato dopo la disfatta di 60.000 fanti, 15.000 pedoni e 200 navi, l'Aragonese senza sparare nemmeno un colpo trionfava.
Carlo D'Angiò dopo Messina, contro Pietro D'Aragona iniziò la sua ormai "perdente guerra", che durerà fino alla sua fine; con una conseguenza: che nel Mezzogiorno, s'insediò un'altra monarchia, e causò quella separazione del Regno di Sicilia dal Regno di Napoli, che sarebbe durata fino al 1816.
Enorme fu il danno e poi l'influenza sul corso della storia: fu causa della rovina dell'impero, diede inizio al declino del papato, modellò i destini d'Italia.
Carlo nella disperazione in cui era caduto sfidò l'aragonese più volte in battaglia in mare e in terra..
La cronaca di questi due anni di guerra dell'angioino e dell'aragonese, se siete interessati, vi invitiamo a leggerne i particolari in queste pagine di Storia d'Italia. A fondo pagina il link delle altre successive pagine.
Carlo d'Angiò e suo figlio Carlo (lo zoppo), furono soccorsi ancora una volta dal Pontefice e pensavano alla riscossa, e vi si preparavano instancabilmente. Il servile Martino IV con le sue "armi
spirituali", aveva non solo scomunicato Pietro d'Aragona perchè dichiarava illegale l'invasione della Sicilia, ma il 21 marzo del 1283 privava il re del Regno di Aragona e della sua dignità regale, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà, e con un altro solenne documento da Orvieto, il 27 agosto il suo regno veniva ceduto al re Filippo di Francia per uno dei suoi figli, a Carlo di Valois.
Martino non si fermò qui, nella frenesia di aiutarlo assegnava a Carlo le decime non ancora scadute delle chiese di Provenza, si impegnava, sebbene invano, a contattare Venezia perché fossero armate per gli Angioini venti galee e, ricevutone un reciso rifiuto, scomunicava pure la repubblica adriatica, metteva a disposizione del vicario del reame di Puglia ventinovemila once d'oro tratte dai tesori raccolti da papa Gregorio in tutta la cristianità per la liberazione di Terrasanta, consentiva che le truppe pontificie militanti in Romagna al comando di Giovanni D'Eppe entrassero nel reame di Napoli e, infine, il 2 giugno bandiva da Orvieto la crociata contro la Sicilia.
Era convinto che tutti i comuni italiani ascoltassero il suo invito e che questi si sarebbero impegnati a far risorgere gli angioini, fu l'ultimo a capire il nuovo ordine di cose, fino al punto di cadere nel ridicolo, e a quel punto a criticarlo aspramemente fu la stessa Curia.
Nella primavera del 1284, impaziente della riscossa, era anche il figlio di Carlo, Carlo lo zoppo: Entrambi avevano deciso di sferrare un attacco agli Aragonesi, ma il figlio non volendo aspettare il padre proveniente dalla Provenza, imprudentemente con circa tenta galee salpò da Napoli, e cadde nel laccio tesogli dai Siciliani, che avendo avuto sentore di una grande
offensiva angioina, si erano portati con una grande flotta guidata dall'ammiraglio Ruggero di Lauria, dietro Capri e altre isole, ed era rimasto lì in attesa, dubbioso se assalire la flotta dello Zoppo radunata a Napoli o quella al largo che il re Carlo stava conducendo dalla Provenza.
II giovane angioino era stato dissuaso dai suoi ammiragli a uscire dal porto, ma il principe fu ancora più stimolato ad agire volendo cogliere la "sua" personale gloria, e con tanta sicurezza e strafottenza ordinò perfino d'imbandire a corte uno splendido pranzo per festeggiare la vittoria che da lì a poco avrebbe colto.
Ruggero non aspettava che quello, lo fece uscire dal porto, e lui con alcune galee fece finta di darsi alla fuga, e già gli angioini erano convinti di aver vinto, che per dileggio si misero ad inseguirli, e spavaldo com'era il giovane, mostrando delle catene, gridava a Ruggero: "Dove fuggi, eroe? Invano scappi, i tuoi ceppi sono qui già pronti !".
Una volta usciti al largo, scattò la trappola di Ruggero; come una morsa, uscendo da dietro le isole e isolette, le galee aragonesi, piombarono addosso alle navi angioine una alla volta, compresa la nave ammiraglia con Carlo sopra. Visto il disastro gli equipaggi angioini chiesero aiuto agli stessi siciliani "Salvateci! Vostra è la fortuna ! Qui è il principe, e qui a voi si arrendono le migliori spade di Francia !".
Carlo dovette arrendersi, consegnare la spada a Ruggero, il quale sapendo che a Castel dell'Ovo era rinchiusa da anni Beatrice di Svevia, la sventurata figlia di re Manfredi, ingiunse allo Zoppo di metterla subito in libertà se voleva salva la vita. Poi inviò l'ordine di liberazione a Napoli, aggiungendo che in caso di rifiuto, di fronte alle acque di Napoli, su una nave si sarebbe svolto lo spettacolo della decapitazione del principe. Beatrice fu liberata e Carlo finì prigioniero ma vivo.
A Napoli accadde ciò che accadeva in ogni città d'Italia da molti anni ogni volta che mutava il vento. "Morte a re Carlo ! Viva Ruggero di Lauria !", e per due giorni la plebe impazzita si diede a saccheggiar le case dei Francesi.
Napoli comunque non era stata ancora conquistata. L'8 giugno 1284 animato da spietati propositi vi giunse Carlo
D'Angiò. Cominciò ad impiccare chi aveva gioito per la disfatta del figlio (la cui sorte minimamente lo preoccupò "Con lui ho perduto un imbelle, uno stolto" insomma ben gli sta). Poi i suoi pensieri furono rivolti non all'umiliazione subita nella sua stessa Napoli, ma alla vendicativa spedizione contro la Sicilia. Si fece aiutare dal Pontefice con altre quindicimila once d'oro, poi diede convegno a Reggio a tutte le forze di terra e di mare e il 24 giugno 1284 si mosse verso Brindisi, e da qui cavalcò verso l'estrema punta della Calabria. Ma quando vi giunse, gli audaci siciliani avevano ormai espugnato quasi tutte le città.
Dove aveva ancora qualche presidio, cercò denari, uomini, navi, ma ormai era tutto inutile. Avanzato negli anni torturato dalla rabbia, impotente, disfatto da una febbre malarica causata da una banalissima zanzara che l'aveva punto, Carlo non era più l'uomo di una volta. Febbricitante delirava e sognava i giorni della riscossa, invocava altri aiuti in denaro da Martino, impartiva ordini e faceva preparativi assurdi. Alla fine si convinse che per lui era finita, fece testamento, nominando erede non il figlio prigioniero, ma suo figlio dodicenne Carlo Martello.
Il 7 gennaio del 1285 mentre si trovava a Foggia, CARLO D'ANGIÒ cessò di vivere: aveva cinquantanove anni di età, e da poco più di diciannove era re. Nessuno lo rimpianse.
Alla morte dell'Angioino seguì, tre mesi dopo quella di papa MARTINO IV, causata, come alcuni raccontano, da una scorpacciata d'anguille di cui pare che il Pontefice fosse ghiotto se dobbiamo credere a Dante, che lo pone nel Purgatorio dove "…purga per digiuno, le anguille di Bolsena e da vernaccia".
Negli ultimi mesi non potendo più contare sul suo protetto, o forse perchè gli si risvegliò un minimo di dignità, o perchè voleva fa dimenticare i suoi tanti errori, fece ammenda di aver dato la carica senatoriale al
D'Angiò, ripristinò la costituzione di Niccolò, riconobbe il consiglio dei priori, disse che era opportuno rinviare l'incoronazione imperiale, mantenendo così vivo una restaurazione imperiale, e aggiunse - a tutela dei diritti dei romani - che avrebbe provveduto personalmente a nominare i due senatori romani in Campidoglio.
Al popolo soddisfatto di vedersi tutelare i propri diritti, offrì poi uno spettacolo di vendetta (pardon, di "riparazione" come disse lui, pentito e affranto). Riccardo Annibaldi, il despota del conclave di Viterbo (anche se Martino proprio alla sua scellerata incursione doveva la tiara) fu per ordine del papa catturato, poi con la corda al collo fu fatto camminare e dileggiato per le vie di Roma, per recarsi al palazzo del cardinale Matteo Orsini per implorare in ginocchio perdono per i maltrattamenti subiti al conclave.
Da notare però che Martino IV non tolse mai l'interdetto con cui lui aveva punito Viterbo per i tumulti scatenatisi alla sua elezione.
Poche settimane dopo lo "spettacolo" (a due mesi dalla morte di Carlo) a Perugia il 28 marzo 1285, Martino IV moriva. Per la sua politica insensata anche lui non lo rimpianse nessuno.
Purtroppo lasciò in eredità al suo successore alcune malsane idee e l'arte degli errori. Infatti il nuovo papa mantenne la scomunica a Pietro D'Aragona, riconfermò il regno di Sicilia al figlio del re di Francia Carlo di Valois, e fu pure lui largo di aiuti finanziari per la guerra in Sicilia. Quindi la guerra fra angioini e aragonesi riprese più vigore. Teatro delle operazioni le terre e i mari di una Italia, ormai diventata campo di battaglia degli stranieri; a scannarsi o a finire in fondo al mare, spagnoli e francesi. Che erano poi gli stranieri chiamati dagli ultimi due papi, in controtendenza con Niccolò III che era giunto quasi al punto di cacciarli tutti.
A complicare le cose in questo stesso fatidico anno 1285, alla morte di Carlo
d'Angiò e di Martino IV, avvenuta nei primi mesi dell'anno, si aggiunse la morte di Filippo re di Francia il 30 settembre, e seguì subito dopo - il 10 novembre - la morte di Pietro d'Aragona. In un arco di tempo brevissimo erano scomparsi i quattro protagonisti. La sciagurata disputa ora passava agli eredi; e gli effetti furono devastanti per l'intera penisola. Per secoli !!
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