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NICCOLO' III, Giovanni Gaetano Orsini, romano 
(1277-1280 ) 

Dalla morte di Giovanni XXI (avvenuta il 20 maggio 1277) erano passati sei mesi, ma i cardinali riuniti a Viterbo non riuscivano a mettersi d'accordo sul nome del nuovo pontefice. In effetti questo collegio elettorale era piuttosto ristretto, contava solo sette cardinali. Dal tempo di Gregorio X non vi erano più state nomine di cardinali e la morte nel frattempo se n'era portati via più di uno.
Tuttavia pur essendo in pochi fu un combattuto conclave, metà di loro erano francesi e quindi favorivano i desideri di Carlo, mentre l'altra metà sostenevano nomi italiani. Su entrambi gli intrighi di Carlo d'Angiò non mancarono.
Nè mancarono le sollecitazioni dei Viterbesi che ignorando l'abrogazione della "Ubi periculum", chiusero anche questa volta i cardinali dentro le mura del palazzo dei Papi.

In qualche modo si giunse al 25 novembre, quando venne fuori il nome di uno dei più potenti cardinali di Roma, da anni a capo degli italiani del Sacro Collegio.
GIOVANNI GAETANO ORSINI, figlio del senatore Matteo Rosso Orsini, creato cardinale da Innocenzo IV e che seguì la sua fuga a Lione nel 1245. 
Fu consacrato il 26 dicembre 1277 nella basilica di San Pietro col nome di Niccolò III. 

Aveva: Lui compiuto numerose missioni per Alessandro IV; Lui nel 1265 diede l'investitura a Carlo d'Angiò del Regno di Sicilia per mandato di Clemente IV; e Lui iniziò a comporre per incarico di Gregorio X la contesa fra l'Angiò e il re dei Romani Rodolfo circa il vicariato imperiale in Toscana.
Fu eletto grazie al sostegno di quel nuovo partito nato per opporsi alla egemonia angioina. Ma anche da quel nutrito gruppo di suoi sostenitori che il ruolo di egemonia lo voleva riservato solo alla Chiesa.
Sotto Innocenzo IV era stato eletto cardinale di S. Nicola in Carcere, protettore dell'Ordine minoritico, ed inquisitore generale.
Aveva servito otto pontefici e preso parte ai conclavi per la successione di sette di loro. 
Come abbiamo visto nelle precedenti pagine, lui a favorire l'inesperto e mite Giovanni XXI, e a diventarne suo consigliere (preparandosi quindi il terreno di futuro papa).
Era insomma un uomo dotto, un uomo esperto, pratico, e nella agitatissima Italia prima ancora di essere eletto e di salire sul soglio aveva concepito un grande disegno. 
Non solo pensava di volersi servire di RODOLFO D'ABSBURGO, per frenare l'ambizione del re di Sicilia, ma aveva intenzione di sferrare un grave colpo alla potenza di Carlo ingrandendo il dominio territoriale della Santa Sede, che nel suo grande disegno doveva costituire una barriera tra l'Italia meridionale e quella settentrionale, tra quella parte cioè della penisola di cui il provenzale era stato investito e quella parte in cui aveva in modo preoccupante esteso la propria influenza. Agendo così avrebbe privato Carlo di tutte le cariche che rivestiva e avrebbe fatto sentire ovunque, nella media ed alta Italia, il peso della propria autorità con un'attività febbrile in pro della pacificazione.
La situazione degli ultimi due tre anni, avevano del resto portato tanta acqua al mulino di questo grande disegno. Del resto era lo stesso Carlo agendo sconsideratamente a convogliare queste acque.

Stava infatti assistendo - indubbiamente a causa del dispotico comportamento di Carlo d'Angiò - a una generale reazione contro i Guelfi e indirettamente questa reazione stava crescendo anche contro il papato che fino ad oggi aveva appoggiato l'angioino. Queste reazioni erano avvenute in Piemonte e a Genova. In Lombardia i guelfi Torriani di Milano erano stati spodestati dai potenti Visconti. A Verona si erano solidamente insediati gli altrettanto potenti Scaligeri. In Romagna dominava Guido da Montefeltro, passato da guelfo a ghibellino.
Solo in Toscana, specialmente a Firenze il partito guelfo resisteva. Ma vi era una ragione plausibile, più economica che politica. Gli affari di Firenze con gli Angioini andavano a gonfie vele e perfino molti ghibellini rappresentanti delle arti maggiori avevano smesso di fare la guerra ai guelfi. Il destino di Firenze era legato insomma ai grandi mercati angioini, che si estendevano fino in Sicilia.

Analizzata questa situazione, Niccolò III, appena eletto, pensò bene di riallacciare subito buoni rapporti con Rodolfo d'Asburgo. C'era la questione della Romagna, ma l'accorto papa non ne fece una questione rilevante, nel suo primo mese di pontificato, a Gennaio, gli scrisse, si lamentò con lui della ingiusta influenza nelle terre appartenenti alla Chiesa, ma nello stesso tempo - benevolmente - lo invitava di inviare legati a Roma per un "lodevole accordo".
A febbraio Rodolfo gli rispose con una disponibilità mai vista prima, si dichiarava "disposto ad una intesa secondo i suoi desideri". Gli restituiva infatti la Romagna, la Pentapoli, la Marca d'Ancona, Camerino, i ducati di Spoleto e Bertinoro.
Ma non inviò queste profferte solo per lettera, ma inviò a Roma, Corrado Prob dei Frati Minori di Germania, che lesse pubblicamente in un concistoro le dichiarazioni di Rodolfo, poi trattando gli affari con Niccolò, l'incoronazione di Rodolfo rientrò in questi colloqui.

Ovviamente con Rodolfo imperatore, Carlo d'Angiò doveva rinunziare a quella autorità che (convinto di fare un favore al papa) aveva usurpata in Romagna e in altre città; doveva rinunziare al vicariato in Toscana fatta per nomina pontificia e non dall'imperatore (e che gli fu restituito); e dato che il 16 settembre 1278 scadeva il tempo (decennale) per l'ufficio di Senatore a Roma, l'angioino doveva rinunciare anche a quest'altra carica.

Quest'ultima prima ancora che scadesse, Niccolò, d'accordo col Comune romano, cambiò la costituzione con la "Fundamenta militantis ecclesiae". Vi si affermava che la carica di Senatore non poteva essere concessa a uno straniero, nè imperatore, nè re, nè principe, duca, marchese, conte, ma solo a cittadini romani e per la sola durata di un anno. E fu così abile che subito propose come nuovo Senatore - e i Romani acconsentirono a nominarlo - suo fratello Matteo Rosso Orsini.
Nell'agire in tal senso nelle antiche famiglie nobili romane si rinforzarono le ambizioni nel governo della città; ed infatti, ben presto dopo gli Orsini, seguirono nella carica senatoriale i Colonna, i Savelli e altri potenti nobili con gli stessi appetiti.

Il disegno-capolavoro al completo di Niccolò, fu portato a termine l'anno dopo, quando offrì la pace a Carlo con Rodolfo d'Asburgo, ricevendo da questi l'angioino il riconoscimento come re di Sicilia. Ma dovette anche giurare di non attentare nè di offendere i diritti del suo Impero.

Poi NIccolò fidandosi solo dei suoi numerosi parenti stretti, e dando loro la giusta protezione militare (paradossalmente con alcune truppe napoletane che Carlo era tenuto a fornirgli come vassallo), come suoi legati li mandò a prendere possesso in nome della Chiesa tutti quei territori restituiti dall'imperatore e dall'Angioino, città per città, risalendo fino alle donazioni fatte da Ludovico il Pio, da Ottone, da Enrico II. 
Dante poi condannò all'Inferno Niccolò per aver dato origine al nepotismo pontificio causando il grande male della Chiesa. Ma l'accusa era forse esagerata, Niccolò in quel momento non si fidava di nessuno, lui era veterano e ne aveva vista tanta di gente volubile, ipocrita, camaleonte nel corso degli otto precedenti pontificati, quindi dovette agire in quel modo se voleva avere saldamente in mano la situazione.
La necessità di trovare persone fedeli nel suo piano di ricostruzione temporale del potere pontificio può quindi in parte spiegare la tendenza del papa a favorire i suoi più stretti parenti.
Con i suoi congiunti oltre che fidarsi di loro maggiormente poteva più facilmente imporre le sue idee, farli partecipi dei suoi pensieri, i suoi voti, i suoi ardimenti. Era insomma una vera secolarizzazione dello Stato della Chiesa quella cui Niccolò III volle mirare, come circa due secoli dopo Alessandro Borgia. 
Ma se vogliamo analizzare bene la cosa, Niccolò procedendo in tal senso avrebbe sì trasformato l'Italia in una vera e propria Signoria degli Orsini, ma dobbiamo anche riconoscere che in tale signoria, l'Italia si sarebbe finalmente affrancata dagli stranieri, ritrovando la sua unità e in parallelo la sua indipendenza sotto il profilo politico.

Infatti c'è da dire che appena Bertoldo Orsini, nipote del papa, come conte della Santa Sede prese possesso della Romagna, tutti i baroni vollero sottomettersi. Ossequianti i Malatesta a Rimini, riverenti i Polenta a Ravenna, e perfino il noto ribelle Guido di Montefeltro fece i suoi omaggi. Anche Bologna, prima rifiutò l'Orsini, poi a fine '79 concluse con lui la pace. 

Pure a Firenze, Guelfi e Ghibellini si giurarono pace; il 18 ottobre 1278 nella piazza di S. Maria Novella, ci fu una grande solenne festa della riconciliazione e perfino l'abbraccio e lo scambio del "bacio della pace". L' "unione" delle genti italiche, anche se erano per il momento puramente formale, in realtà stava diventando di fatto, anche perchè non solo i commerci sarebbero rifioriti fra città e città, ma anche nella cultura il ritorno alle antiche tradizioni avrebbero accelerato questa unione.

Tutto questo - riconoscimento della sovranità della Chiesa, sottomissione del Campidoglio, pace nell'Impero, pace fra Guelfi e Ghibellini - era avvenuto nell'arco di nemmeno due anni di pontificato di Niccolò; Carlò d'Angiò si vide vacillare in Italia il terreno sotto i piedi. Poi per via di una eredità in Oriente, trasferì le sue mire e le sue ambizioni sull'impero bizantino, dove nei paraggi aveva già messo piede con un alleato. E proprio per questo Michele VIII che aveva riallacciato i rapporti con Roma, voleva - ritenendo quell'alleanza di Carlo una minaccia al suo impero - che Niccolò facesse troncare l'alleanza che il D'Angiò aveva fatto con il re dell'Epiro e della Tessaglia, con dei propositi che possiamo immaginare.
Niccolò si dimostrò anche qui abilissimo, evitando di schierarsi con una delle parti (per non compromettere una futura unione delle due Chiese), non intervenne su Carlo per far rompere l'alleanza col re d'Epiro, ma nello stesso tempo proibì severamente al "suo vassallo" di portare un attacco all'impero bizantino.

Niccolò ebbe anche tempo di occuparsi di questioni religiose, quando le discordie dentro l'Ordine francescano divennero eccessive e minacciavano uno scisma: fra gli spirituali rigidi senza il possesso di averi e quelli che volevano mitigare le regole desiderando l'uso effettivo delle cose indispensabili alla vita. Si accusavano e si calunniavano a vicenda. Con una bolla messa fuori nel 1279, Niccolò, come era abile fare, difese a spada tratta l'Ordine, ma non diede ragione nè agli uni nè agli altri. Diede solo consigli all'Ordine e a chi prendeva i voti, ma si guardò bene di tramutare i consigli in precetti. Mise pace, ma non accontentò nè i pii nè gli zelanti, e ben presto morto questo papa nei fraticelli tornarono le discordie e le prediche degli apocalittici.

Niccolò, aveva sempre amato il lusso, ma nei suoi pochi anni di pontificato, oltre averlo procurato ai suoi parenti (che oltre i benefici ai suoi nipoti gia detti sopra, ne fece tre di loro cardinali) non esitò a procurarselo anche a spese della Chiesa, tanto da meritarsi un posto tra i simoniaci nell'Inferno dantesco (XIX, 70-72).
Tuttavia - pur suscitando malcontenti e lasciar motivo a un giudizio storico poco benevolo - ne trasse giovamento Roma stessa. Spese somme enormi per riedificare la residenza del Laterano, procedette ad un rinnovamento della basilica di San Pietro, e dopo aver ampliato il palazzo del Vaticano - che divenne da allora residenza dei papi - iniziò la costruzione degli omonimi famosi giardini.
Presso Viterbo, a Soriano, fece edificare uno splendido palazzo, 
e lì Papa Niccolò III morì, colpito da apoplessia, il 22 agosto del 1280. 
Riposa nella cappella Orsini a San Pietro.

In soli 32 mesi di pontificato - come abbiamo visto sopra - aveva stravolto ogni cosa, purtroppo non aveva del tutto completato l'opera, anche perchè il suo successore non fu un degno erede.
Morto lui, a Roma subito scoppiarono tumulti, Carlo rialzò la testa, il partito Guelfo tornò ad essere forte. Non così in Sicilia dove, dopo il gravissimo avvenimento dei Vespri Siciliani, l'isola invocò la protezione del papa, ma questo commise dei gravissimi errori, invece di accettare su un piatto d'argento l'Isola (che avrebbe fatto impazzire di gioia Innocenzo IV) pronunciò la scomunica contro i siciliani, e arrivò perfino a predicare una crociata contro di loro.
Niccolò si era coperto di gloria imperitura, il suo successore si coprì di ridicolo, causando purtroppo non pochi danni

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