Dopo la morte di Urbano, avvenuta come abbiamo già letto il 2 ottobre 1264, i cardinali (fra l'altro quasi tutti francesi, creati appunto dal francese Urbano) si riunirono nella stessa Perugia per eleggere un successore. Ma la decisione per la scelta del nome - anche questa volta - fu piuttosto laboriosa, e come tempi furono più lunghi dell'elezione di Urbano.
Una fazione saggia proponeva un papa che fosse in grado di fare pace con Manfredi, un'altra fazione era favorevole a mettere un uomo favorevole a Carlo
d'Angiò. Ovviamente prevalse questa fazione, non smentendosi come connazionali
Ci vollero tuttavia quattro mesi per giungere alla scelta. Il 5 febbraio 1265 finalmente fecero il nome di un nobile di Tolosa nato a St. Gilles presso Nimes: GUIDO, figlio di FOLCO LE GROS (nome originario Guy Foulques)
All'inizio della sua carriera Guido era stato un giurista di grido alla corte di Luigi IX re di Francia. Si era sposato, aveva avuto due figli, ma mortagli prematuramente la moglie si era fatto monaco certosino. Con le sue qualità di alta giustizia e una grande perizia diplomatica, era entrato nell'ordine ecclesiastico salendo ben presto ad alta dignità. Fu infatti eletto vescovo di Puy nel 1257, poi arcivescovo di Narbona nel 1259, infine creato da Urbano IV cardinale di Santa Sabina nel 1262.
Eletto il 5 febbraio del 1265, Guido trovandosi a Roma, quando gli giunse la notizia della sua elezione, non sentendosi sicuro, si travestì da anonimo frate e si recò a Perugia dove il 15 dello stesso mese fu consacrato papa col nome di CLEMENTE IV.
Se la morte di Urbano aveva ridato speranza a Manfredi di pacificarsi con la Curia romana, l'avvento al papato di Clemente IV, altro suddito diretto di Carlo
d'Angiò, fece cadere dall'animo dello svevo questa speranza. Comprendendo che la grande contesa con la Santa Sede doveva essere risolta dalle armi, il figlio di Federico II si preparò alla difesa; chiamò mercenari dalla Germania e Saraceni dall'Africa, ordinò ai vassalli del regno di radunare le milizie, fornì di vettovaglie le fortezze che guardavano il confino, fece sbarrare con travi l'imboccatura del Tevere e, per impedire che i Francesi sbarcassero sulle coste del Lazio, comandò che ottanta navi siciliane e pisane incrociassero tra la Corsica la Sardegna e la penisola.
CARLO D'ANGIÒ intanto si preparava anche lui alla spedizione, aiutato dall'ambiziosa moglie, che impiegava tutte le sue ricchezze e perfino vendeva e impegnava i suoi gioielli per assoldare gente, e dal clero francese che acconsentì alla levata della decima sui beni ecclesiastici.
Al principio della primavera del 1265 un esercito di cinquemila cavalli, quindicimila pedoni e diecimila balestrieri si era radunato sulle rive del Rodano. L'Angioino aveva ricevuto dal Pontefice una bolla, con la quale gli era stata confermata l'investitura del regno di Sicilia, ma con la stessa fece anche pressioni perché rompesse gli indugi e che si decidesse a partire per l'Italia.
Carlo aveva promesso di trovarsi a Roma prima della Pentecoste e poiché non aveva navi sufficienti per far passare l'esercito nel Lazio per la via mare e temeva le insidie della flotta nemica, diede il comando delle truppe al conestabile di TRAISIGNIES con l'incarico di condurlo in Italia attraverso le Alpi; poi per fare più presto, nell'aprile del 1265, s'imbarcò a Marsiglia con un corpo scelto di mille cavalieri distribuiti in venti galee e sciolse le vele diretto alle coste del Lazio. La navigazione non fu senza incidenti: era giunto presso le coste della Toscana, quando fu sorpreso da una violenta tempesta che disperse la flottiglia francese e gettò la galea su cui era montato l'Angioino verso Porto Pisano, dove poco mancò che Carlo non fosse catturato dal conte GUIDO NOVELLO, luogotenente di Manfredi.
La tempesta però fu la sua salvezza perché la flotta siculo-pisana fu costretta a prendere il largo e Carlo
d'Angiò, rimessosi in mare, riuscì a giungere indisturbato fino alla foce del Tevere, risalire il fiume e andare ad alloggiare nel convento di San Paolo fuori le mura, e qui rimase fino a quando non lo raggiunsero i suoi cavalieri.
Il 24 maggio, vigilia della Pentecoste, alla testa dei suoi e seguito da una grande moltitudine, l'angioino fece il suo ingresso trionfale a Roma, accolto dal popolo che applaudiva al senatore, al re di Sicilia, al liberatore e imprecava a Manfredi. Feste splendide seguirono e pochi giorni dopo, nel tempio d'Aracoeli sul Campidoglio, davanti alla folla plaudente, Carlo indossò la toga senatoriale.
Qualche tempo dopo, tra l'Angioino e i cardinali inviati dal Pontefice si veniva ad un accordo, in cui fra l'altro, Carlo s'impegnava ad osservare le seguenti condizioni: avrebbe pagato dopo la conquista del Regno di Sicilia, in cinque rate, cinquantamila marche alla Santa Sede, e alla stessa un tributo annuo di ottomila once d'oro; avrebbe tenuto il regno di Sicilia in qualità di vassallo della Chiesa per sé e i suoi legittimi eredi; in mancanza di figli maschi la successione sarebbe passata alle femmine; non sarebbe mai diventato imperatore né re di Germania o dei Romani né signore della Toscana o della Lombardia; l'erede, se donna, sarebbe decaduta da ogni diritto sposando l'imperatore; Carlo avrebbe potuto ottenere la corona imperiale solo rinunciando al regno in favore dei suoi discendenti; non avrebbe, pena la scomunica, mai occupato alcun territorio della Chiesa, alla quale avrebbe restituito tutte quelle occupate dagli svevi; che avrebbe tenuto la carica di senatore solo temporaneamente, fino vale a dire alla conquista del regno; riconosciute le immunità ecclesiastiche, avrebbe revocate le costituzioni contrarie alla libertà della Chiesa e ai sudditi del regno avrebbe concesso tutte quelle immunità e quei privilegi ch'essi godevano al tempo di Guglielmo II.
Intanto l'altro esercito francese radunato alle rive del Rodano si preparava a partire. Il conestabile di Traisignies, portandosi dietro la contessa Beatrice (impaziente di coronare la sua ambizione di regina) , verso la fine dell'estate del 1265, guidò il suo esercito attraverso le Alpi, in Italia. Molti avventurieri si erano aggregati al suo esercito per la paga che vi si distribuiva, altri erano convinti che nella spartizione dell'Italia c'era una fetta di penisola per tutti. Sulle incursioni fatte in Lombardia, in Toscana e nella marca di Ancona, queste sono meglio illustrate nel periodo in "Storia d'Italia".
Quando Carlo d'Angiò era giunto a Roma, era in penose difficoltà perché lui non aveva danaro per pagare le truppe e papa CLEMENTE IV, che gli aveva dato tutto il suo per mantenere i mille cavalieri condotti da Marsiglia (aveva perfino chiesto denaro dagli usurai) richiesto insistentemente, rispondeva: "Io non possiedo né monti né fiumi d'oro. Dopo che per te ho fatto tutto quel che ho potuto, dopo che ho stancato i mercanti, i quali non ci vogliono prestar più nulla, non capisco come tu possa ancora importunarmi. Io stesso soffro la povertà e per far fronte ai miei bisogni sono dovuto ricorrere a tutti i mezzi, eccettuate le estorsioni e le ingiustizie. Tu conosci bene le cause di tanta miseria: l'Inghilterra ci è contraria, l'Alemagna non ci obbedisce, la Francia è malcontenta e si lagna, la Spagna basta appena a se stessa. Pretendi tu forse che io faccia miracoli e cambi la terra e i sassi in oro ?".
Il linguaggio aperto e rude del Papa era dovuto, oltre che all'impossibilità di dare ancora aiuto all'Angioino, al contegno sfrenato dei francesi, i quali, attraversando l'Italia, si erano dati ai saccheggi, non rispettando neppure i beni ecclesiastici, e, giunti a Roma, avevano commesso e continuavano a commettere rapine e violenze, che lo stesso Carlo non sapeva o non poteva impedire. A lui, cui era stato rimproverato di aver preso con i suoi uomini alloggio nel Laterano (che era la sede vacante del papa), il Pontefice scriveva:
"Noi non siamo affatto disposti a sopportare ancora il tuo contegno, né vogliamo lasciare inascoltate le lagnanze che da ogni parte ci inviano gli ecclesiastici, i baroni, i cavalieri e le città che hanno subito i torti che tu a tutti hai fatto da quando lasciasti il tuo paese. Noi non ti abbiamo chiamato perché nel malaffare tu imitassi i nostri nemici, ma per sostenere i nostri diritti, pago di quanto ti spetta; e non smetterò mai di ricordarti che il tuo primo dovere è di obbedire e prestar difesa alla Santa Madre Chiesa".
Alle rimostranze papali, CARLO D'ANGIÒ rispondeva reclamando che lui doveva raggiungere Roma per incoronarlo; ma Clemente indugiava, prendendo come pretesto o la stagione poco propizia, o la scarsa sicurezza del territorio che avrebbe dovuto attraversare, o la molestia che i creditori di Roma gli avrebbero data e, a sua volta, invitava l'Angioino a recarsi a Perugia per ricevervi la corona.
Alla fine il Pontefice incaricò cinque cardinali d'incoronare Carlo. La cerimonia avvenne il giorno dell'Epifania del 1266, nella basilica lateranense, dove, presenti i magistrati, numerosi prelati e i baroni francesi e provenzali, l'Angioino prestò nelle mani del cardinal vescovo di Albano il giuramento di vassallaggio alla Chiesa e dell'osservanza assoluta dei patti e infine riceveva la corona del regno di Sicilia insieme con la moglie Beatrice.
Dopo alcuni giorni di feste, il nuovo re, giudicando dannoso aspettare la primavera per iniziar le ostilità contro Manfredi, anche perché sarebbe stato abbandonato dalle sue milizie male o per niente pagate, diede all'esercito il segnale della partenza e, attraverso la strada di Ferentino, iniziò a marciare verso l'Italia meridionale.
Qui Manfredi non era rimasto inoperoso: convocati a Benevento i baroni, i feudatari e i rappresentanti delle città demaniali, aveva a loro ordinato di chiamare alle armi i vassalli; aveva rafforzato con truppe ed opere di difesa, i confini del regno, aveva presidiato Rocca d'Aree e messa una numerosa guarnigione di Saraceni, Lombardi e Tedeschi a San Germano; al conte Riccardo di Caserta, suo cognato, aveva affidato la custodia del ponte di Ceperano, incaricando il conte Giordano Lancia di guardare con la cavalleria tedesca i guadi del Garigliano; lui invece con il grosso dell'esercito aveva messo il campo a Capua, punto strategico, e da dove avrebbe potuto accorrere in difesa delle truppe di prima linea e, in caso di sfondamento, ritirarsi nell'interno del regno
Se ai sapienti preparativi dello Svevo avesse corrisposto la costanza dei suoi vassalli, forse agli Angioini non sarebbe mai stata possibile la conquista del regno; infatti, a Manfredi, mancò purtroppo la fedeltà dei suoi baroni, e perciò furono vani il valore di pochi e le sagge disposizioni del re.
Fu detto e ripetuto che il conte di Caserta tradisse il suo sovrano lasciando libero il passaggio del Garigliano alle milizie
angioine. È questa una leggenda smentita dai moderni storici; ma tutti sono concordi nel riconoscere la verità dei versi di Dante che scrisse: "là dove a Ceperan fu bugiardo ciascun pugliese".
E al ponte di Ceperano, infatti, si videro i primi disastrosi effetti della propaganda degli agenti pontifici, delle promesse del Papa e di Carlo, e dell'instabilità dei baroni del reame svevo, i quali, all'apparire dell'esercito angioino, abbandonarono slealmente e codardamente quel punto importantissimo della difesa agli invasori.
Questi, dopo avere occupato Rocca d'Arce ed Aquino, si spinsero, quasi senza colpo ferire, fin sotto le mura di San Germano, dove giunsero il 4 febbraio 1266. Famosa fu la resistenza che opposero i Saraceni coadiuvati da Tedeschi e Lombardi e prove di indubbio valore diede il conte di Caserta; ma il numero dei nemici prevalse; periti la maggior parte dei difensori musulmani e dei baroni rimasti fedeli al re, S. Germano cadde il 10 febbraio 1266 nelle mani dell'Angioino, che subito dopo riceveva l'omaggio dell'abate di Montecassino.
La caduta di questa fortezza consigliò Manfredi a levare il campo da Capua e trasferirlo presso Benevento, dove più facilmente avrebbe potuto ricevere rinforzi dalla Puglia, dagli Abruzzi, dalla Calabria e dalla Sicilia. Saggio consiglio. La guerra era al suo inizio e il disastro di San Germano non era irreparabile. Manfredi, se avesse dato ascolto alla voce della prudenza, avrebbe dovuto evitare di scontrarsi in giornata campale con Carlo. La tattica migliore da seguire era quella di temporeggiare; così avrebbe dato tempo ai rinforzi di giungere ed avrebbe messo in cattive, forse disperate condizioni il nemico, privo di vettovaglie e di foraggi e lontano dalle sue basi.
Forse Manfredi aveva stabilito di adottare questa tattica in un primo tempo, e ne fa fede il ripiegamento su Benevento; purtroppo però fu di breve durata questa sua intenzione e forse nel cambiare piani fu consigliato dalla defezione dei suoi, dal desiderio di lavar l'onta di San Germano e dalla speranza di evitare un'ulteriore e più vasta defezione dei suoi vassalli.
Anche per non dare lo sconfortante spettacolo di soccombere davanti all'insolente Angioino, che, imbaldanzito dai facili successi, gli devastava i territori, lo Svevo decise di aspettare il nemico e dargli battaglia; ma quando, il 26 febbraio del 1266 gli Angioini, dopo una difficile marcia per la via di Venafro, Alife e Talese, si affacciarono sulle alture dominanti la pianura di Santa Maria della Grandella, a due miglia da Benevento, dove era accampato Manfredi, questi tentennò e, ritornato al primo disegno, cercò di prender tempo, inviando al nemico ambasciatori con proposte di accomodamento.
Giovanni Villani ci riferisce -la spavalda riposta di Carlo d'Angiò: "Andate, e dite al sultano di Lucera che io voglio battaglia e che oggi o io manderò lui all'inferno o egli manderà me in Paradiso".
Ferito nel suo orgoglio, Manfredi accolse la sfida e ordinò subito ai suoi di passare il fiume Calore, il quale divideva i campi opposti, e di assalire il nemico. I primi ad ingaggiar battaglia furono i Saraceni. Questi, passato il fiume, tempestarono di frecce la fanteria angioina procurandole delle sensibile perdite, poi l'assalirono vigorosamente e la sbaragliarono.
In soccorso dei fanti Carlo mandò una parte della sua cavalleria, comandata da GUIDO DI MONFORTE e dal conte di MIREPOIX. Questa, dopo avere ricevuto la benedizione e l'assoluzione dal vescovo di Auxerre, lanciando il grido di guerra "Montjoie ! Montjoie" ! si scagliò contro i Saraceni, ne arrestò l'impeto e li avrebbe decimati se non fosse stata a sua volta assalita dalla cavalleria tedesca che operò un formidabile attacco di fianco al grido di "Svevia".
A quel punto la battaglia divenne generale ed accanitissima e poiché il vantaggio stava, dalla parte delle truppe di Manfredi, i Francesi ricorsero ad un mezzo che dai cavalieri d'allora era considerato sleale: cominciarono con le daghe ad abbattere i cavalli tedeschi, lanciando poi sui cavalieri caduti i mazzieri che li finivano a colpi di mazza. Questo sistema di combattere produsse enormi vuoti nella cavalleria tedesca che iniziò a ripiegare.
A sostenerla Manfredi fece partire alcune compagnie che aveva conservato come riserva e senza dubbio il vantaggio degli Angioini sarebbe stato annullato se gli ordini dello Svevo impartite a quelle fossero stati eseguiti. Invece, proprio allora, fra le truppe della riserva iniziò la diserzione che doveva decidere delle sorti della battaglia.
Primi a dare l'esempio furono il conte di Molfetta, gran camerario del regno, i conti di Caserta e d'Aquino, cognati del re, e il conte d'Acerra. Li imitarono altri baroni di Puglia e così non solo la cavalleria fu completamente sopraffatta, ma divenne chiaro ai Francesi e lo sfaldamento delle milizie sveve.
La battaglia era ormai irrimediabilmente perduta per il figlio di Federico. Non volendo lui essere tra i superstiti del suo esercito disfatto, decise di trovare nella battaglia una morte gloriosa che preferiva ad una vita ignominiosa. Alcuni cavalieri, pochi fedelissimi, gli stavano intorno, pronti a seguirlo ovunque e a perire con lui, che, a cavallo, era affaccendato ad allacciarsi l'elmo.
In quel momento si verificò uno di quei segni di sinistro augurio che avrebbero fatto arretrare dal campo perfino un romano antico: l'aquila d'argento che faceva da cimiero all'elmo del biondo e cavalleresco sovrano cadde sulla groppa del destriero. Manfredi vide in quel segno la fine ed esclamò: "Hoc est signum Dei; avevo attaccato il cimiero con le mie mani e se cade non è per puro caso". Così detto, spronò il cavallo, seguito dal valoroso romano TEBALDO degli ANNIBALDI, e si cacciò dentro nella mischia come un uomo che cerchi più di mettere fine ai suoi giorni che non di procurare agli altri la morte.
Poco dopo un destriero, quello del re, a sella vuota, galoppava tra i cadaveri che ricoprivano il campo di battaglia e chi dei Ghibellini riuscì a vederlo capì che con la battaglia e con la sfortuna era anche finita la vita del re.
Ma pochi riuscirono a vedere quel cavallo senza cavaliere; i più fuggivano alla volta di Benevento, inseguiti dai vincitori, che entrarono a tarda serata, quasi al buio, in città, dove furono fatti prigionieri, fra gli altri baroni, GIORDANO LANCIA e PIETRO degli UBERTI.
La sera stessa della battaglia (26 febbraio 1266) annunciando al Pontefice la vittoria, CARLO
D'ANGIÒ fra le altre cose, scriveva: "Di Manfredi si ignora se sia caduto in battaglia o preso o fuggito. Il suo cavallo è in nostre mani, e ciò potrebbe far credere che sia già morto. Do' l'annuncio alla Santità Vostra di questa grande vittoria affinché ne porga grazie all'Onnipotente che ce la concesse, combattendo con il braccio mio per la causa della Chiesa. Se giungerò ad estirpare dalla Sicilia le radici del male, assicuro che ristabilirò in questo reame l'antico obbligo di vassallaggio che deve alla Chiesa stessa: l'avvierò di nuovo, ad onore e gloria di Dio, all'esaltazione del suo nome e pace della Chiesa ed al bene del paese".
Tre giorni dopo giunsero notizie più precise sulla sorte di Manfredi; da un suo valletto, sul campo di battaglia, fu riconosciuto il cadavere, tutto crivellato di ferite. Giaceva accanto a quello del fedele Tebaldo degli Annibaldi, che era stato, durante il combattimento, sempre accanto al re e vicino a lui era morto. Il corpo del sovrano fu messo sopra un asino e portato al cospetto di Carlo, che, per assicurarsi che fosse proprio quello del suo rivale, lo mostrò a tutti i baroni prigionieri.
Tutti lo riconobbero; quando GIORDANO LANCIA lo vide scoppiò in dirotto pianto ed esclamò: "O mio signore, che siamo, noi diventati!". I cavalieri francesi, presenti alla scena, commossi chiesero che si rendessero funebri onoranze alla salma, ma Carlo tirando fuori come pretesto la scomunica di Manfredi, lo fece seppellire in un'improvvisata comune fossa scavata presso la strada maestra, vicino al ponte Valentino sul Calore; i cavalieri vi posero solo qualche pietra sopra da rendere il luogo riconoscibile.
Ma neppure lì doveva aver pace lo sventurato eroe. Si sostenne che il luogo dove era stato sepolto era dominio della Chiesa e quindi sacra era la terra dov'era la fossa, perché era accanto ai ruderi di un'antica chiesa di Marciano. Fu perciò ordinato a Tommaso d'Aqui, arcivescovo di Cosenza, di rimuovere il corpo dello scomunicato, e il prelato, che era fiero nemico dello Svevo, si affrettò ad ubbidire e di notte lo fece esumare e trasportare oltre il Garigliano (il Verde).
Dante, che di questo fatto dà notizia, fa dire a Manfredi nel Purgatorio
"Se il pastor di Cosenza, che alla caccia
Di me fu messo per Clemente, allora
Avesse in Dio ben letta questa faccia,
L'ossa del corpo mio sarieno ancora
In co del ponte, presso a Benevento,
Sotto la guardia della grave mora.
Or le bagna la pioggia e muove il vento
Di fuor del regno, quasi lungo il Verde,
Dov'ei le trasmutò a lume spento.
Dopo la sconfitta di Manfredi, Benevento la successiva mattina del 27 febbraio 1266, aprì le porte ai Francesi e questi, fin dall'ingresso nella città mostrarono ai nuovi sudditi di Carlo che razza di padrone guadagnavano. Benevento che non era accusata di nessuna colpa, fu ugualmente e selvaggiamente messa a sacco dalle soldatesche accecate di sangue e di rapina. Nulla fu rispettato, né i beni dei laici, né quelli delle Chiese, né l'età, né il sesso degli abitanti; per otto giorni la città visse solo di terrore e di stragi; furono uccisi uomini e donne, vecchi e fanciulli, violati i monasteri violentate le monache (lo accenna lo stesso papa), vuotate le case, dati alle fiamme gli edifici con tale furia che, dopo una settimana, della ricca e prosperosa Benevento non rimaneva che uno squallido insieme di case deserte, in gran parte distrutte, e tutte lorde di sangue.
Il papa dovette subito accorgersi che il fratello del pio S. Luigi (Luigi IX re di Francia) non sarebbe stato degno della sua protezione. Gli Svevi erano stati distrutti, non governavano più in Italia, ma coi Francesi entrò una nuova tirannia. E le campane che Clemente fece suonare a Perugia, all'annunzio della vittoria di Carlo, non erano certo degne dell'evento.
Clemente credeva ora di poter tornare a Roma, ma Carlo non solo non lo aiutava, ma volle mantenere -contro la promessa- la dignità senatoriale in Roma. Inoltre iniziò ad operare di proprio arbitrio negli Stati della Chiesa, imponendo grosse contribuzioni, chiudendo gli occhi alle ruberie dei suoi soldati, sordo ad ogni ammonimento del papa, nè tenne conto dei vari trattati conclusi con lui alla sua incoronazione.
Il Pontefice era irritato e il 12 aprile del 1266 scrisse a Carlo in tono risentito:
"I Crociati che dovevano protegger templi e i conventi, li hanno invece assaliti e saccheggiati, hanno arso le sante immagini, e perfino recata violenza alle vergini sacre al Signore. Né le rapine, le uccisioni e gli orribili delitti di ogni maniera furono compiuti nel primo furore della battaglia, ma durarono per ben otto giorni sotto i tuoi occhi, senza che nulla venisse da te fatto per impedirli. Apertamente si dice che questo è stato fatto a bello studio (premeditato), per il motivo che la città non sarebbe rimasta al re, ma al Pontefice. Nemmeno Federico, il nemico della Chiesa, si è mai comportato così indegnamente".
Ma Carlo continuò a spadroneggiare. E non gli occorsero nemmeno altre battaglie per la conquista del regno che era stato di Manfredi. Le città e i castelli si dichiaravano subito per Carlo e gli inviavano rappresentanti a giurargli, obbedienza. Da Benevento l'Angioino passò a Capua dove fu festosamente accolto, poi a Napoli. Trionfale fu l'ingresso del vincitore in questa città destinata ad esser la capitale del regno. Dopo avere ricevuto le chiavi e l'omaggio del sindaco FRANCESCO ROFFREDO, Carlo
d'Angiò entrò a Napoli a cavallo, seguito da un brillante stuolo di baroni e cavalieri e dalla (ambiziosa e finalmente) regina trasportata su un carro coperto di velluto azzurro e ricamato a gigli d'oro.
Carlo distribuiva ai suoi cavalieri le baronie che aveva confiscato a suo profitto, e dava a quelli anche di minor grado tutte le cariche più redditizie.
In pochi giorni si videro partire dalla sua corte, per tutte le parti dei nuovi suoi stati, sciami di giustizieri, ammiragli, comiti, ispettori dei porti, gabellieri, ispettori di magazzini, maestri giurati, balivi, giudici e notai.
A tutti gl'impieghi dell'antica amministrazione aveva aggiunto tutti gli impieghi corrispondenti che lui conosceva in Francia, di modo che il numero dei pubblici ufficiali era più che raddoppiato. Gonfi di boria per le nuove loro dignità, ignorando, come il loro padrone, la lingua del paese, e disprezzando i costumi nazionali, questi plebei, diventati possenti e arroganti, percorrevano le province con un solo proposito: impossessarsi di ogni cosa in ogni contrada.
Volevano essere accolti come vincitori, ma in ogni luogo gli abitanti manifestavano il più alto disprezzo per la nazione soggetta. I loro arrivi deprimevano le popolazioni, e le loro dimore che si sceglievano diventavano subito simili a lussuosi palazzi reali a spese dei cittadini; infatti furono mantenute tutte le imposte già vigenti sotto Manfredi, riportate alla luce quelle che Manfredi aveva da qualche tempo abolite, e non bastanti le une e le altre per mantenere il lusso dei vincitori ("liberatori") ne imposero altre.
Sulle dolorose e tragiche vicende della vedova di Manfredi e dei suoi figli, vi rimandiamo al già citato sopra periodo della Storia d'Italia.
A questo punto non solo i Ghibellini ma anche il resto della popolazioni italiane, accolse con favore la notizia che il giovane Corradino incitato dai partigiani della sua casa, all'inizio del 1267 aveva deciso di passare le Alpi con a fianco Federico d'Austria, lo zio Lodovico il patrigno Mainardo.
Più volte dato per morto Corradino aveva compiuto il quindicesimo anno di età; era alto, bello, biondo, dotato d'ingegno vivace e di grande gentilezza e, quel che più conta, le sventure della sua casa gli avevano affinato lo spirito e avevano fatto raggiungere al suo pensiero quella maturità che solo con gli anni si acquista.
Di carattere fiero ed orgoglioso come tutti gli uomini della sua stirpe, Corradino non sapeva rassegnarsi alla perdita del regno e alle tristissime condizioni in cui era caduta la dinastia degli Hohenstaufen. Corradino pensava che la missione della sua vita doveva esser quella di vendicare l'avo Federico, il padre Corrado e lo zio Manfredi e rialzare all'antico splendore la propria famiglia.
Nonostante l'amara esperienza fatta con i Francesi, Clemente, sempre con la irragionevole furia antisveva, fece la cosa più sbagliata; ammonì prima il tedesco, poi lo scomunicò.
Ma il giovane principe a fine anno era già a Verona, ove MARTINO della SCALA lo accolse festosamente e corsero a giurargli fedeltà ed aiuto i Ghibellini fuorusciti di Padova, Vicenza, Mantova, Ferrara, Brescia e Bergamo. il 20 gennaio 1268 era a Pavia, che lasciò il 22 marzo per dirigersi a Vado ligure e di qui per mare si portò a Pisa, incontrandosi con l'esercito che Federico d'Austria aveva invece condotto attraverso gli Appennini.
Clemente temendo una discesa su Roma - che stava - repentinamente - già anch'essa per darsi allo Svevo - sollecitò Carlo
d'Angiò alla difesa e, per averne l'aiuto concedeva al re la carica di Senatore per sei anni.
Ma prima ancora che Carlo si muovesse da Napoli, l'esercito di Corradino, vincendo qualsiasi resistenza, il 24 luglio del 1268 era già a Roma, e sul Campidoglio i Romani lo avevano già proclamato imperatore.
Ma se voleva compiere l'opera fino in fondo Corradino doveva andare incontro a Carlo, ed infatti il 18 agosto uscì da Roma ed il 23 avvenne il grande scontro con l'esercito di Carlo a Scurcola, nella famosa battaglia detta anche di Tagliacozzo. Lì si decisero le sorti di Corradino, del regno di Sicilia e del futuro dell'Italia.
Ma più che per l'abilità di Carlo, la battaglia fu vinta dalla bravura, dall'alta strategia, e da alcuni stratagemmi, da chi aveva ricevuto l'alta direzione della battaglia: ALARDO di VALERY, ciambellano di Francia.
L'esercito di Corradino pur inizialmente vittorioso, andò incontro a un disastro. Corradino per consiglio dei suoi fedelissimi, quando vide persa la battaglia si mise in salvo con il duca Federico d'Austria, con i conti Gualfresco, Galvano Lancia, Gerardo e Galvano di Donoratico di Pisa. Pensava di trovare sicuro rifugio a Roma, memore delle trionfali accoglienze ricevute solo poche settimane prima; ma quando il 28 agosto, vi giunse, trovò che gli animi degli incostanti Romani erano già mutati a suo riguardo. Il fuggiasco fu ricevuto freddamente; gli stessi Ghibellini, che da una sua vittoria si ripromettevano vantaggi considerevoli e nulla più avevano da sperare da uno sconfitto, che anzi la sua presenza poteva riuscir loro dannoso, gli fecero capire che era pericoloso per lui fermarsi a Roma, e lo consigliarono di lasciare la città.
Corradino imbarcandosi via mare sperava di trovare sicuro rifugio a Pisa. Si credeva salvo, quando GIOVANNI FRANGIPANE, signore del castello di Astura, un tempo ghibellino e beneficiato da Federico II, poi diventato guelfo e sostenitore della Curia da cui aveva ricevuto l'investitura di Taranto, lo fece inseguire lo catturò e lo chiuse nel castello. Invano Corradino minacciò, pregò, invocò l'antica fedeltà del barone alla casa Sveva, offrì per sé e per i suoi amici il prezzo del riscatto. Il Frangipane non si commosse, ovviamente sperando maggior guadagno se lo consegnava all'Angioino.
Intanto Carlo entrava trionfante a Roma, poi lasciata la città al suo vicario, andò personalmente a Palestrina a prendersi i prigionieri e li condusse in catene a Napoli e dopo averli bene esposti come allegorie del suo trionfo li fece chiudere in un'oscura prigione di Castel dell'Ovo, nella stesso castello dove c'era dentro un'altra sveva a languire: la figlia di Elena e Manfredi.
Corradino rimase in carcere pochi giorni, dal 20 al 26 o al 29 ottobre, e intanto, per pura formalità, Carlo convocava a Napoli due rappresentanti di ogni città della Terra di Lavoro e del Principato e, dando a questa assemblea autorità di tribunale, li incaricava di giudicare i prigionieri. Li condannarono alla pena capitale.
Il 26 o il 29 ottobre del 1268 veniva eretto il patibolo nel Campo Moricino, (l'attuale Piazza del Mercato). Sopra una torre stava seduto per godersi il sanguinoso spettacolo, Carlo
d'Angiò con la sua corte. (Tutti i particolari in queste pagine di Storia d'Italia)
Con la vittoria di Scurcola prima e con le spietate repressioni poi, Carlo rafforzò la propria posizione e quella del partito guelfo nella media e nell'alta Italia. In Toscana la lega guelfa, formata da Firenze, Prato, Pistoia, Lucca, Volterra, Massa, Colle, San Gemignano, Arezzo, Borgo San Sepolcro, Cortona, Montepulciano, San Miniato e alla quale dovettero aderire Pisa e Siena, si mise sotto la protezione dell'Angioino.
Nell'Italia settentrionale un'altra lega, costituita a Cremona, si formò tra i comuni di Alessandria, Bergamo, Bologna, Como, Ferrara, Milano, Modena, Novara, Parma, Pavia, Piacenza, Reggio, Torino, Tortona, Vercelli e il Marchese di Monferrato; anche questa sotto il protettorato del re di Sicilia.
Un mese dopo il supplizio di Corradino, il 29 novembre del 1268, a Viterbo, cessava di vivere CLEMENTE IV. La morte gli impedì di assistere ai successivi atti di inaudita ferocia di coloro che proprio lui aveva chiamati in Italia come campioni della Chiesa.
Così campione il D'angiò, che per tre anni, mise il terrore addosso ai cardinali impegnati ad eleggere un nuovo papa. Una parte (i cardinali francesi) era ovviamente a favore di Carlo, l'altra parte a favore della restaurazione dell'impero, ma non perchè questi erano filo-tedeschi, ma per ridimensionare le pretese angioine che si erano rivelate non proprio positive per il papato, con questo perfino costretto a vivere fuori sede, dopo aver concesso a Carlo la carica decennale di senatore, il quale per Roma il nuovo tiranno aveva altri progetti in cui non c'era posto per il pontefice.
La "sede vacante" fu di quasi tre anni, la più lunga di ogni tempo. E passerà alla storia anche per un altro motivo: i viterbesi spazientiti, misero i diciotto cardinali a pane e acqua fin quando avrebbero eletto il Papa, ma non avendo ottenuto nulla, inferociti decisero di murare le porte e finestre e di scoperchiare il tetto del Palazzo dei Papi dov'erano riuniti in conclave; freddo, pioggia avrebbe dovuto far schiarire velocemente le idee ai cardinali.
Ma non fu solo questa singolare protesta ad accelerare i lavori quando alla fine elessero...
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