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ALESSANDRO III, Rolando Bandinelli, di Siena
(1159-1181)

La morte di Adriano diede luogo subito ad uno scisma. Il collegio dei cardinali-vescovi, appare nettamente diviso in due fazioni, una filoimperiale, con a capo il cardinale Ottaviani (ambizioso di salire lui sul soglio), e una seconda decisamente autonoma, capeggiata da Bosone, nipote del papa morto. Radunatosi dentro San Pietro il collegio dopo tre giorni di dispute, i voti della maggioranza conversero su quel Rolando Bandinelli, teologo e canonista insigne, che a Besanzone aveva osato sostenere il diritto teocratico al cospetto del Barbarossa mandandolo in collera (un anticipazione di ciò che avverrà in ventidue anni tra i due "giganti").

Due soli cardinali si opposero a quella scelta: GIOVANNI di S. MARTINO e GUIDO di S. CALLISTO, i quali, strapparono di dosso al Bandinelli il manto papale, lo misero addosso al loro capo e gridarono papa, col nome di Vittore IV, il cardinale Ottaviano di Santa Cecilia. Un senatore indignato a sua volta strappò il manto da Ottaviano, il quale riesce a riaverne il possesso mettendoselo sulle spalle al rovescio, facendo ridere tutti i presenti, che però dal riso passarono subito ai fatti.

Ne nacque un tumulto, soffocato da un gruppo di armati guidati da GUIDO di BIANDRATE, dal conte palatino OTTONE e da ERIBERTO, che allora si trovavano a Roma. ROLANDO BANDINELLI, si rifugiò, con gli altri cardinali in una torre di Trastevere, aspettando, che il popolo, saputa la verità dei fatti, si dichiarasse in suo favore.
Ma il popolo e il basso clero presero le parti di Vittore seguendolo in una lunga processione per condurlo in Laterano.
Bandinelli, riuscì a lasciare Roma, si recò in terra Normanna, a Ninfe, dove il 20 settembre il vescovo di Ostia Ubaldo che lo aveva seguito lo consacrò papa, col nome di Alessandro; e qui ottenne il riconoscimento dal re GUGLIELMO di Sicilia e la sua protezione.

Ottaviano rimasto padrone di Roma, si fece invece consacrare nell'abbazia di Farfa. Entrambi i due contendenti Pontefici si rivolsero all'imperatore, scrivendogli lunghissime lettere, e FEDERICO, il cui desiderio era quello di avere un papa ligio ai suoi doveri, si finse indignato alla notizia della duplice elezione ed espresse il proposito di risolvere lo scisma convocando un concilio che doveva tenersi a Pavia il 13 gennaio del 1160 con i vescovi e gli abati d'Italia, di Germania, di Francia, d'Inghilterra e di Spagna.
Latori delle lettere imperiali, annunzianti il concilio ai due Pontefici, furono i vescovi di Praga e di Verdun. VITTORE IV, che era spalleggiato dal popolo romano e dalla fazione imperiale, accolse lietamente l'invito di recarsi a Pavia; ALESSANDRO III invece (l'audacia non gli mancava, inoltre era un esperto giurista) rispose che...
"....non riconosceva all'imperatore il diritto di convocare concili senza il consenso papale, che lui non era un vassallo del sovrano e perciò non aveva l'obbligo di ubbidire alla sua intimazione; che infine spettava solo al Pontefice di esaminare, giudicare e definire le questioni ecclesiastiche e che egli non avrebbe mai sacrificato la libertà della Chiesa, redenta dal sangue di tanti martiri".

Invece del giorno fissato, il concilio, durando l'assedio di Crema, si tenne non il 13 gennaio (la resa di Crema fu il 25 gennaio) ma il 5 febbraio. Federico, sceso per la terza volta in Italia, presentatosi con un numeroso stuolo di baroni, e cinquanta vescovi tedeschi e lombardi, esortò i convenuti alla giustizia e, dicendo di non volere influire con la sua presenza sulle decisioni dell'assemblea, si ritirò, anche se la sua volontà era apparsa chiara.
Il concilio durò sei giorni; l'11 febbraio (non potevano andare le cose diversamente) fu confermato pontefice Vittore IV; e Alessandro e il re Guglielmo di Sicilia furono da lui scomunicati. Federico Barbarossa, dopo avere reso grandi onori al papa, scrisse ai grandi e ai vescovi dell'impero minacciando con un bando chi si fosse dichiarato fedele ad Alessandro.

Alessandro III, lo attacca fin dal primo giorno. Ricevuta notizia delle decisioni del concilio pavese, dal duomo di Anagni, il Giovedì Santo, scagliò l'anatema su Vittore IV e su Federico Barbarossa, sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, scomunicò tutti i partigiani dell'antipapa ed inviò legati a tutti i re del mondo cattolico perché riconoscessero solo lui legittimo capo della Chiesa.
Dovunque, fuorché in Germania, Alessandro III ebbe il desiderato riconoscimento; in Lombardia, come nelle altre province della penisola fu predicata la difesa del vero Pontefice e a Milano l'arcivescovo Oberto - proprio lui che alla dieta di Roncaglia aveva sostenuto i diritti imperiali del Barbarossa - ora annunciava al popolo la scomunica lanciata da Alessandro al Barbarossa e a Vittore, e anche lui calcò la mano scomunicando per proprio conto i vescovi di Mantova, di Lodi, di Cremona, e i consoli di Cremona, Novara, Pavia, Lodi e Vercelli, Guido di Biandrate, il Marchese di Monferrato, i conti del Seprio e della Martesana e il castellano di Baradello.
L'avversione all'imperatore si diffonde in molte città italiane, assume forti tinte politiche, e papa Alessandro ben presto diventa il simbolo di questa avversione.

Il Barbarossa che non aveva potuto esautorare Adriano IV -come desiderava-, a Pavia si era presa la rivincita, ma non potè nascondere la sua rabbia e il suo disappunto nel vedere la disapprovazione di quasi tutti gli stati europei; che non era solo una disapprovazione religiosa ma politica. La rabbia la sfogò, concentrando le forze militari su Milano, deciso a punire la città considerata la responsabile principale della rivolta dei Comuni del nord Italia all'autorità imperiale.

PER NON RIPETERCI, QUESTA EPICA BATTAGLIA LA NARRIANO
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Dopo due anni di resistenza, nel 1162, Milano dovette aprire le porte al Barbarossa, che nel punirla fece abbattere tutte le mura di cinta e gran parte delle case che all'interno a queste si appoggiavano.
Nel frattempo Vittore IV si era rifugiato in Germania, e a Treviri convocò un concilio per farsi rinnovare la precaria dignità pontificia, che ovviamente la ottenne. Rientrato poi in Italia, il 20 aprile del 1164 moriva a Lucca. Fu rimpiazzato immediatamente con un suo amico, il cardinale Guido di Crema, consacrato dal vescovo di Liegi il 26 aprile con il nome di Pasquale III.
Federico Barbarossa punita Milano fece ritorno in Germania.

Alessandro nello stesso periodo era rientrato a Roma, ma battagliero com'era, non volle limitarsi a fare solo il vescovo di Roma, ma prese a cuore i comuni dell'Italia del Nord, la cui maggior parte avevano preso non solo le sue difese, ma il pontefice era diventato il simbolo della libertà. Stavano stringendo leghe, Milano aveva ricostruito le mura, Alessandro da Roma lanciava appelli a tutti i popoli cristiani; insomma il clima guerresco stava nuovamente riscaldandosi. Divenuto caldissimo, Federico Barbarossa decise questa volta di scendere per la quarta volta in Italia, ma questa volta volle puntare direttamente su Roma. Vi entrò il 22 luglio 1167; gli scontri in città furono tremendi, e a fatica con le armi in mano i tedeschi riuscirono ad occupare San Pietro. Ci misero dentro Pasquale III, il quale servile e zelante mise la corona imperiale sul capo del Barbarossa.
Fra saccheggi, devastazioni, tumulti, scontri armati, Alessandro III era comunque riuscito a sfuggire alla cattura, travestito prima da pellegrino a Terracina, poi riparando a Benevento presso i Normanni.

Barbarossa era convinto che ormai Roma era sua, che era padrone della grande città dell'impero, e non aveva bisogno della nomina a Cesare che gli avevano promesso di dare i romani repubblicani, nè aveva bisogno dell'approvazione del papa. Era Dio che aveva voluto così.
Ma aveva appena ragionato così, quando le prime avvisaglie negative iniziarono a minare il successo. Fra le truppe germaniche nell'afoso fine luglio-agosto iniziò a circolare la peste, la voce popolare diffuse subito in giro che quella era la punizione divina per gli invasori, "gli angeli sterminatori". Infatti il morbo iniziò a decimare l'esercito, gli ufficiali, i nobili al seguito e lo stesso cancelliere Rainaldo di Dassel. Morirono l'arcivescovo RAINALDO di Colonia, che era stato il braccio destro della politica di Federico, il giovane, bello e cavalleresco duca di Svevia, cugino dell'imperatore, GUELFO VII, i conti di NASSAU, di STULTZBACH, di ALTOMONTE, di LIPPE, di TUBINGA, i vescovi di RATISBONA, di PRAGA, di VERDUN, di SPIRA, di LIEGI e molti altri grandi laici ed ecclesiastici. Morì, fra gli altri, il cronista ACERBO MORENA, figlio di Ottone, storico imperiale anche lui. Il terrore e l'angoscia iniziò a serpeggiare nelle file germaniche distruggendo il morale. La resistenza che intanto a Roma si era andata formando, guidata dai Frangipane e dai Pierleoni , riuniti nella circostanza contro un comune nemico, stava colpendo senza pietà le malate truppe tedesche; a quel punto il Barbarosa prese la decisione di abbandonare a tutta fretta il campo, perseguitato da un versetto biblico tirato fuori per l'occasione dai suoi nemici: "E il Signore mandò un angelo, il quale distrusse ogni valente uomo ed ogni capo e capitano che era nel campo del re degli Assiri; laonde egli se ne tornò svergognato al suo paese".

Ed è quello che fece Barbarossa: mesto mesto volle far ritorno a Pavia. Ma fu un Odissea nell'attraversare le contrade d'Italia. Molte città sbarrarono i passi, costringendo i tedeschi a percorsi micidiali sugli Appennini. La metà del suo esercito febbricitante avanzava disordinatamente, l'altra metà si trascinava dietro carri o barelle con sopra i più autorevoli comandanti in fin di vita, o le loro salme da riportare in patria.
A metà del settembre del 1167 il Barbarossa era a Pavia. Non rassegnandosi all'insuccesso della spedizione romana, pensava ancora alla Lombardia. Nemmeno immaginava che la situazione era - da come l'aveva lasciata - completamente diversa.
Quando volle riunire una dieta a Pavia per organizzare una seconda punizione a Milano, pochissimi furono i rappresentanti di quelle città che credeva amiche. Ne poteva far da solo in quelle misere condizioni in cui era il suo esercito. Inoltre le milizie delle leghe si erano rafforzate e i pochi attacchi che fecero i tedeschi e i loro scarsi alleati, furono energicamente respinti.
" Fino al mese di marzo 1168 -scrive l'Emiliani-Giudici - Barbarossa continuò a fare una guerra magra, evitando sempre di correre il rischio di impegnarsi in una gran giornata campale: con delle ripetute scaramucce s'ingegnava solo per poter coprire la propria impotenza, la quale si rendeva in ogni scontro più manifesta, e gli tolse perfino la reputazione; e siccome era l'epoca dei giudizi di Dio, da questo suo continuo indietreggiare, scansarsi, o fuggire, i popoli e perfino le sue genti credevano che il cielo ora proteggesse la giusta causa dei ribelli contro la malvagità del loro oppressore.
Federico a quel punto era moralmente sconfitto; restare ancora a lungo in Italia sarebbe stato un irreparabile errore.

Prima che finisse l'inverno, Barbarossa stimò prudente lasciare Pavia, perché un atto di ferocia commesso in città da un tedesco contro un nobile pavese, aveva suscitato una generale indignazione e malcontento. Con poco seguito, evitando di passare dalla Lombardia (in quelle condizioni l'avrebbero annientato) fece un lungo giro, si portò in Piemonte e alla chetichella si trasferì nel Monferrato, e da qui pensò di passare in Borgogna; ma il passaggio di Susa gli fu negato da UMBERTO III di SAVOIA, detto "il Santo" ma "indiavolato" contro l'imperatore perché ai vescovi della sua contea aveva concesso privilegi che oltraggiavano la sua sovranità e occorsero i buoni uffici del marchese Guglielmo del Monferrato e la promessa di revocare le concessioni per far desistere il conte dal rifiuto.
Ma nel passare da Susa, poco mancò che il Barbarossa non finisse ingloriosamente la sua vita, perché, avendo fatto impiccare un nobile bresciano, uno degli ostaggi che si portava dietro in Germania dalla Lombardia, il popolo, sdegnato, si levò a tumulto ed obbligò con le minacce l'imperatore a rimettere in libertà gli altri. Ma poi corsa la voce che in città si era ordita una congiura contro di lui, si travesti da servo e, lasciato nel suo letto un cavaliere che gli rassomigliava, con il favore della notte fuggì e valicò, nel mezzo del 1168, quelle Alpi per le quali, fuggiasco da Spira, Enrico IV era disceso, subendovi al pari di lui un'umiliazione per opera di un altro Savoia.
Un'umiliazione quella fuga nella notte, come un ladro, che Barbarossa inizia a rimuginare; il suo primo pensiero nella prossima discesa sarà quello di andare a punire Susa, per poi, con altrettanta ostinazione andarsi ad impantanarsi ad Alessandria, una città che gli fu fatale.
Appena Barbarossa si era messo in fuga, a Milano si preparavano alla riscossa e progettavano come metterlo in "trappola" se tornava a scendere in Italia.
Nel frattempo a Roma sempre con il sopravvento - solo formale - del partito imperiale: PASQUALE III era morto e il 20 settembre del 1168 gli era stato dato per successore l'ungherese Giovanni da Struma col nome di CALLISTO III, il quale si barricò per mesi e mesi dentro la città papale protetto dai suoi seguaci.
Tuttavia, sebbene fuori, Alessandro III, nella stessa Roma iniziò a godere dell'appoggio dei Frangipani, si era guadagnata l'amicizia di Tusculo ed acquistato in Italia tanta autorità. Le trattative per una pace tra l'imperatore e il Pontefice erano già iniziate quando il papa era a Benevento nella primavera del 1169, ma non approdarono a nulla; furono riprese nel marzo del 1170, a Veroli, dove si recò, inviato da Federico, il vescovo EVERARDO di Bamberga, cui Alessandro III fieramente rispose che il Barbarossa, "se voleva pacificarsi con la Chiesa, doveva umilmente piegare l'orgoglioso capo al Pontefice, mostrarsi benevolo, riverente e grato alla Santa Sede che lo aveva innalzato alla dignità imperiale e non osare di togliere al Papato la libertà che il suo divino istitutore gli aveva concessa".
Successo migliore non ebbero le trattative che il Barbarossa cercò d'intavolare con GUGLIELMO II di Sicilia; ma gli riuscì d'impedire che le città dell'Italia centrale aderissero alla Lega Lombarda che già andava propagandosi pure nella Romagna. A quel punto decisie di scendere per la quinta volta in Italia, dopo quell'ignominiosa fuga nel '67 da Susa, per due motivi: riportare l'autorità imperiale in Lombardia, e isolare Alessandro, che stava diventando pericolosamente la bandiera delle lega dei Comuni in Alta Italia.
Barbarossa diede l'annuncio della spedizione in una dieta convocata a Ratisbona nel maggio del 1174 e per allettare i principi a seguirlo non accennò a Roma e al Papato, ma parlò sole di città lombarde. Ciononostante l'annuncio fu accolto con molta freddezza dai grandi, e pochi risposero all'appello.
IN QUESTE PAGINE I FATTI DELLA SUA QUINTA DISCESA IN ITALIA > >
LA BEFFA DI ALESSANDRIA - LA SCONFITTA
LA PACE A VENEZIA

Nella città lagunare, oltre la pace con l'impero, Alessandro fu riconosciuto dal Barbarossa legittimo papa, e abbandonò al suo destino l'antipapa. Anche il re normanno Guglielmo concluse una pace quindicennale con l'impero; mentre per i Comuni fu stipulata una tregua di sei anni (poi con la pace di Costanza del 1183, otterranno la piena autonomia).

Alessandro finalmente poteva far rientro a Roma a prendere il legittimo possesso della sua sede, questa volta protetto dal vicario imperiale Cristiano di Magonza. Il 12 marzo del 1178 entrò in città accolto da una moltitudine di folla che gli buttava nel percorso fiori, cui seguirono tante feste e tanti giuramenti di fedeltà; ma forse furono feste eccessive perchè Roma si era illusa di veder rispettati gli ideali di quelle libertà comunali che il papa era andato a difendere in Alta Italia lottando contro il Barbarossa suscitando un entusiasmo patriottico in ogni contrada.
Onorato in tutta Europa, solo a Roma cominciò ad essere mal visto. Il popolino e i repubblicani erano come già detto delusi, ma paradossalmente anche i nobili (del suo partito aristocratico-papale) amareggiati, si sentirono traditi, e non ritennero opportuno appoggiare un papa che si era schierato con i Comuni, decisamente contrari a qualsiasi tipo di aristocrazia.
Quanto al Comune, il Senato, anche se era protetto dalle armi della milizia, non era in grado di far rispettare le leggi emanate e tanto meno quelle riguardanti la tutela del papa.

Con questo clima, Innocenzo III si allontanò più volte da Roma. I suoi ultimi anni di pontificato le visse in esilio in varie località del Lazio; nel giugno del 1181 era a Viterbo; e sembra che sollecitasse un intervento a Roma dal vicario imperiale Cristiano di Magonza.
Due mesi dopo, si trovava a Civitacastellana quando il 30 agosto dello stesso anno, morì.

Trasportato a Roma per essere sepolto in Laterano, nel percorso della processione non mancarono degli indegni Romani che furono irriverenti verso la bara di uno dei più grandi pontefici: invece di buttargli i fiori (come quando era rientrato da Venezia a Roma) la bara la presero a sassate.

Indubbiamente con Alessandro il papato emerse alla fine del suo lungo pontificato, più forte, più rispettato e più vitale di quando era salito sulla cattedra di San Pietro.
Quello che però lascia perplessi - lui che era stato nella Lega dei Comuni vessellifero di libertà e al rientro da Venezia era stato ricoperto di fiori - è quella sua non tolleranza a dare queste libertà agli stessi Romani. Pontefice amico delle libertà comunali egli non fu di certo, né del resto, un Papa di quei tempi poteva essere.
Ciò che mise fuori gioco una volta per tutte il democratico spirito del Comune, fu la grande preparazione giuridica di Innocenzo, le sue decretali, l'applicazione della teoria del diritto canonico. Consolidando l'amministrazione papale, creò un perfetto meccanismo e una buona organizzazione di governo, che sviluppandosi in larga misura, quelli del Comune non riuscirono a contrastare.
Del resto, alleandosi con i comuni lombardi Alessandro III non pensò di giovare alla causa della libertà dei Lombardi, ma all'interesse esclusivo del Papato e soltanto da questo interesse fu ancora mosso, quando ad Anagni, tradendo la causa dei Comuni, si accordò con Federico senza nemmeno convocare e interpellare i rappresentanti delle città unite nella Lega che a Legnano avevano sconfitto duramente Barbarossa, pagando con molto sangue e rovine.

Rientrato a settembre del 1178 da Venezia, come si era convenuto in quell'assise, nel marzo del 1179, indisse il terzo concilio lateranense (11° ecumenico). Vi presero parte più di 300 vescovi e un migliaio furono gli interventi.
Furono promulgati molti decreti: quello che impediva gli scismi; la validità dell'elezione del papa solo se c'era una maggioranza di voti dei due terzi; furono deposti tutti quelli che erano stati promossi dagli antipapi; e altri decreti dei vizi del tempo: contro la simonia, contro le usure, l'incontinenza del clero. Poi personalmente Alessandro con attività instancabile, mandò suoi legati nei diversi paesi, si occupò della disciplina monastica ed ecclesiastica, trattò con Bisanzio per la riunione della chiesa greca alla latina, aiutò Luigi VII di Francia a liberarsi dai Catari (contro i quali emanò condanna di scomunica), concesse la dignità regia ad Alfonso di Portogallo e il possesso delle terre che avrebbe tolto agli infedeli, confermò l'ordine dei Certosini, canonizzò San Bernardo di Chiaravalle e TOMMASO BECKET ( prelato nominato dal papa arcivescovo di Canterbury, che in perenne ostilità con il re d'Inghilterra che voleva sottrarre al clero la giurisdizione feudale, fu assassinato per essersi opposto e per aver scomunicato i prelati nominati da Enrico).

La storia deve ricordare che, se Alessandro sofferse impavido l'esilio, se riuscì a liberare la chiesa dallo scisma, se ottenne che il Barbarossa gli baciasse i piedi ed umilmente gli tenesse la staffa, si deve anche non dimenticare che coronò la sua politica abile ma tortuosa accettando per ritornare a Roma l'ausilio delle armi imperiali e per mezzo di queste a Roma riuscì ad uccidere la risorta repubblica.

Morto lui, i cardinali, raccolti a Velletri, il 6 settembre 1181 elessero ed ordinarono Pontefice UBALDO ALLUCINGOLI di Lucca, che prese il nome di ....

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