Il giorno stesso la morte di Anastasio, il 12 luglio fu eletto l'inglese Nicholas Breakspear, già cardinale di Albano e legato pontificio in Norvegia. Fu poi consacrato il 5 dicembre 1154 in San Pietro con il nome di Adriano IV.
Il nuovo papa che doveva restare l'unico inglese della storia ad assumere il pontificato era nato in Inghilterra, a Langley, presso San'Alban. Di umilissima condizione (suo padre era un semplice prete di nome Roberto) si era recato in Francia, dove con l'ingegno e la tenacia era riuscito a percorrere tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica; divenendo poi priore nel 1137 del monastero di S. Rufo, presso Arles.
Il cronista Giovanni di Salisbury lo descrive di smoderata avarizia finalizzata in una smania di potere, ma sembra che appena divenuto pontefice, cosciente ai suoi doveri, si sarebbe redento.
Ma come nota il Gregorovius, non venne mai meno ai principi di grandezza, e prese a modello Gregorio VII "applicando il principio della signoria universale del papato"
Dante, su questa avarizia ne fa un accenno, lo mette nel suo Purgatorio (XIX, 97-145), ma fece un po' di confusione, perchè lui lo chiama Papa Adriano V, anche se intendeva parlare di Papa Adriano IV; nello stesso errore cadde poi il Petrarca, che però si accorse dell'errore e lo corresse.
L 'Abate Nicholas Breakspear sceso in Italia quando sul soglio vi era Eugenio III per chiedere una più rigida riforma per il suo monastero. Le sue particolari doti e la sua dottrina impressionarono il Pontefice che lo trattenne e lo promosse cardinale vescovo di Albano. Gli fu poi data la legazione in Svezia e Norvegia, che condusse con molta prudenza durante in breve pontificato di Anastasio. Questo papa lo aveva mandato in Scandinavia per organizzarvi le diocesi e renderle sempre più obbedienti alla Santa Sede.
Era da poco tornato dalla sua missione, per la quale dagli storici doveva esser chiamato "l'Apostolo del Nord". E lui era l'uomo che ci voleva per risollevare il Papato dalle difficili condizioni in cui versava: seguace fervente delle dottrine di Gregorio VII, era - e questo allora contava - dotato di volontà e di polso fermissimo, i cardinali non ebbero dubbi nell'eleggerlo.
Con meno prudenza del suo predecessore, ma anzi con risolutezza, si apprestò ad agire appena salito sul soglio. Della sua energia fornì subito indubitabile prova, scacciando dal suo cospetto i deputati del popolo andati a chiedergli la cessione dei diritti sovrani.
Vedendo che i moti popolari non cessavano, vedendo Arnaldo da Brescia che con le sue prediche infatuava i romani, quando nella Via Sacra venne ferito a morte il cardinale di S. Prudenziana, entrò subito in conflitto con la repubblica romana e scagliò l'interdetto su Roma. Fece cessare tutte le cerimonie religiose nella città, ad eccezione dell'olio santo ai moribondi, che però non potevano essere sepolti in terra consacrata.
L'anatema scagliato contro un'intera città privava i cittadini da ogni conforto religioso. Tutti i crocifissi e le immagini dei santi venivano coperti con un lugubre velo nero.
Mai la città era stata colpita da una pena tanto severa, e ovviamente se ne sentì impaurita, l'interdetto voleva dire una sorta di punizione divina sulla città
Eugenio III con la sua morte non era riuscito nell'attuazione concreta del patto di Costanza, nè era riuscito a vedere Federico a Roma per l'incoronazione; Anastasio che gli era succeduto -come abbiamo visto nella sua biografia - non volle occuparsi della questione romana, nè tantomeno sollecitò la discesa in Italia di Federico; i suoi 17 mesi di pontificato furono così tranquilli e di pacifica convivenza che ai repubblicani sembrò Anastasio il papa ideale.
Adriano invece riaccese il conflitto fin dal giorno della sua consacrazione. Lui non riconosceva il Senato ma anche il Senato non riconosceva lui come papa e tantomeno il suo potere temporale.
L'interdetto fece però cambiare atteggiamenti ai cittadini di Roma; il Senato resisteva con spavalderia, ma il popolo privato delle cerimonie, quando senza funzioni, messe ecc. giunse la Settimana Santa che precedeva la Pasqua del 1155, sentendosi abbandonato da Dio, insorse contro il Senato sollecitando la richiesta di perdono al papa. Il Senato a quel punto non più appoggiato dal popolo si adeguò, una delegazione si fece interprete dell'opinione pubblica - e finalmente riconoscendolo papa- chiese ufficialmente perdono a papa Adriano. Che promise di sciogliere l'interdetto ma a condizione che Arnaldo fosse cacciato da Roma e punito con l'esilio. Ottenuta la promessa andò a celebrare la Pasqua in Laterano col tripudio della folla.
Arnaldo nel frattempo era stato arrestato e consegnato al cardinale Gerardo di S. Niccolò, ma i fanatici del ribelle predicatore, compresi alcuni conti della Campagna, lo liberarono e seguitarono ad onorarlo come "profeta". Dopo aver vagato da un posto all'altro, i visconti di Campagnano gli diedero ospitalità. Qui anticipiamo le conclusioni: quando poi scese in Italia Federico, Adriano per sondare le sue vere intenzione, gli chiese la consegna di Arnaldo. Il re lo accontentò con questo stratagemma: fece arrestare uno dei visconti, e grazie all'ostaggio, si fece dai Campagnano consegnare Arnaldo. Affidato ai legati pontifici, il monaco fu condannato a morte per impiccagione, il suo cadavere bruciato su un falò, le sue ceneri - per impedire che il popolo le venerasse come reliquie di un santo - buttate nel Tevere.
Spariva così il monaco che per nove anni con il suo entusiasmo e il suo talento si era messo a servizio della libertà cittadina.
Adriano come abbiamo detto, fin dal primo momento della sua consacrazione, era intenzionato a rovesciare il Comune e, deciso a mettere in pratica il patto di Costanza, sollecitò quello che aveva sottoscritto Federico, cioè la sua discesa in Italia e a Roma per ricevere la corona imperiale, ma anche per mettere in pratica quello che il patto stabiliva: restaurare la signoria del pontefice negli Stati della Chiesa, difendere S. Pietro dai repubblicani, lottare contro i normanni.
Ma ricordiamoci che anche i repubblicani avevano richiesto l'intervento di Federico promettendogli di mettersi sotto la sua tutela e offrirgli il Senato la corona Imperiale dei Cesari.
L'uno sapeva della richiesta dell'altro, e quindi sia i repubblicani che il papa, con l'arrivo di Federico a Roma, si chiedevano con timore come avrebbe agito.
Federico Barbarossa, prima ancora dell'interdetto lanciato dal Papa su Roma, nell'ottobre del 1154, si era già mosso con un esercito ed era già sceso in Italia per farsi incoronare a Pavia re dell'Alta Italia. Poi avrebbe raggiunto Roma per cingere la corona imperiale.
Nell'alta Italia i Comuni, specialmente Lodi e Como, impegnati con la loro potenza, in una tremenda lotta di predominio, venivano inconsapevolmente a invocare, per la tutela dei loro interessi, l'aiuto di un potere, in contrasto col nuovo diritto sorto dalle autonomie cittadine. Federico giunse e cinse la corona di re a Pavia. Ma subito dovette accorgersi che non era facile impresa restaurare in Lombardia l'autorità imperiale. Se a Roncaglia, Lodi, Como, Pavia, il conte di Monferrato ricorrevano a lui come a Signore, Milano, che era poi la vera città che dominava tutta la Lombardia, mostrò subito la sua fiera ostilità. Il re distrusse Rosate, Galliate, Asti, Chieri, Tortora, mostrando la sua decisa volontà di trionfare.
Infine scese a Roma per cingere la corona imperiale. Adriano IV che aveva turbato la repubblica romana con l'interdetto, fatto cacciare Arnaldo da Brescia, aspettava il re con saggia diffidenza. Alla notizia del suo avvicinarsi, inviò lettere da Viterbo con tre cardinali che dovevano conferire con lui e conoscerne le intenzioni. Federico li accolse affabilmente e giurò che dopo il ritorno dei messi del papa, egli avrebbe difeso e mantenuto il pontefice e i suoi cardinali nella libertà, nei loro beni e diritti. In un abboccamento poi seguito fra il papa e l'imperatore tra Sutri e Nepi, il 9 giugno 1155, il giovane monarca, orgoglioso della sua dignità, voleva scansare l'umiliazione di tener la staffa del pontefice. Vi si lasciò indurre dopo che i principi più anziani gli ricordarono essere quest'omaggio antica tradizione, praticato pure da Lotario verso Innocenzo II.
Tanto il papa quanto il re dovettero capire di essere molto lontani nell'amicizia, ma il momento non era opportuno per manifestare i profondi dissensi. Si misero d'accordo. Federico desiderava la corona; Adriano aveva urgente bisogno di aiuto contro i Normanni e per la pace di Roma. Il 18 giugno 1155 fu celebrata in S. Pietro la solenne incoronazione. I repubblicani ne furono esasperati perchè Federico rigettò, la loro offerta di fondare un Impero democratico. Presero quindi le armi contro le milizie tedesche, ma l'imperatore punì gravemente i rivoltosi.
Federico, con l'esercito stanco e con l'esperienza dura della resistenza italica, ritornò in Germania, dove alcuni vassalli gli si erano ribellati. Il papa rimase deluso dell'aiuto sperato, trovandosi davanti alla minaccia normanna.
Questi nel frattempo, dopo la morte di Ruggero, avevano un nuovo re. Senza alcun'intesa col papa, il 26 febbraio 1154, Guglielmo di Sicilia occupò il regno. Adriano IV (come avevano fatto i suoi predecessori) protestò per i suoi prioritari diritti ereditari di signore feudale pontificio. Come risposta Guglielmo incominciò a saccheggiare gli Stati della Chiesa; Adriano lo scomunicò. Alcuni suoi baroni passarono allora al papa, mentre anche i Bizantini premevano sul regno normanno. Guglielmo si avvicinò allora al pontefice, il quale era impedito dai cardinali di far pace, ricordandogli il patto di Costanza e le promesse fatte a Federico. Ma prima ancora che il papa prendesse un partito, Guglielmo decise di farsi le sue ragione con le armi. E alla fine il papa cedette.
Si concluse una pace molto favorevole ai Normanni. Il papa riconosceva Guglielmo, sciolto da ogni scomunica, re di Sicilia e duca delle Puglie, e gli conferiva l'investitura. E Guglielmo dal canto suo prestava a lui giuramento come vassallo della Sede romana, e si obbligava al tributo annuo di seicento scudi d'oro. Il diritto di visitare le chiese, d'inviare legati, accettare appelli era riservato al papa quanto ai domini continentali del re, ma per la Sicilia, conforme al privilegio di Urbano II, fu ristretto a certi confini e segnatamente fatto dipendere dal consenso reale. Parimenti fu assicurata la libertà delle elezioni, le quali però in Sicilia dovevano restare sottoposte all'approvazione del re. La condizione politica in cui il pontefice venne a trovarsi -si disse - fu obbligato a fare questi patti, dai molti cardinali condannati.
A Federico non piacquero proprio per nulla queste convenzioni, che erano contrarie al trattato di Costanza, e anche perchè mettevano in pericolo i suoi disegni sull'Italia meridionale. L'imperatore fu spinto ad opporsi al papa dal cancelliere Rainaldo di Dassel e da un gruppo di cardinali tedeschi; trattò segretamente con i Bizantini per turbare le buone relazioni con Roma; infine inviò un proclama ai sudditi dell'impero, tendente a screditare l'autorità pontificia, avvalorando il concetto che la sua potesta imperiale gli veniva solo e direttamente da Dio; e chi lo avesse seguito avrebbe raggiunto autonomia al proprio potere, duca, conte o Comune che fosse.
L'arcivescovo Eskillo di Lund, tornando da Roma in Danimarca, fu maltrattato presso Thionville, spogliato e fatto prigioniero. Federico, nonostante le proteste di Adriano, non punì gli autori, nè liberò il prelato. Il papa mandò a lui, nella dieta di Besanzone, dell'ottobre 1157, i cardinali Rolando e Bernardo, richiamandolo benevolmente alle sue promesse. Rainaldo di Dassel, nella traduzione tedesca della lettera pontificia, voltò la parola beneficia, anzichè in benefici, con la parola feudi, quasi che l'Impero fosse un feudo pontificio. Sembrò un'affermazione arrogante, come se Federico restasse agli occhi del papa, un suo umile vassallo. Ci fu un tumulto tra i principi, perchè Adriano avrebbe affermato che era disposto a conferire maggiori feudi all'imperatore. I legati pontifici furono indegnamente congedati.
Federico in una sua lettera circolare, ritornando sull'equivoco, accusò il papa di ledere i suoi diritti, interdisse ai suoi sudditi il viaggio a Roma, e procurò di tirare al suo partito i vescovi ed i cardinali.
Questi prelati diedero torto al papa, quando con essi si lamentò del cattivo trattamento dei suoi legati, lo pregavano a tranquillizzare con altra lettera l'imperatore. Adriano IV, inviò un'altra lettera nel 1158, dando opportuna spiegazione. Disse non trattarsi nella prima epistola di feudi, ma di favori. Federico si dichiarò soddisfatto, ma la pace non poteva essere così assicurata.
La superba dichiarazione dei diritti imperiali, la dieta di Roncaglia dell'11 novembre 1158, la seconda discesa di Federico in Lombardia, le esazioni compiute dagli ufficiali dell'imperatore nelle terre della Chiesa provocarono il risentimento del papa, che, nell'aprile del 1159, affermava solennemente essere diritto di S. Pietro conferire le magistrature ed esigere le regalie di Roma; negava all'imperatore il diritto di trattare direttamente con i Romani; le terre di S. Pietro non esser tenute al fodro, salvo per l'incoronazione imperiale; Tivoli, Ferrara, Massa, Ficarolo, i beni della contessa Matilde, il territorio di Acquapendente a Roma, il ducato di Spoleto, la Sardegna e la Corsica doversi restituire alla S. Sede.
A queste rimostranze l'imperatore rispose punto per punto: che non lui, ma papa ADRIANO IV aveva violato la "fede giurata" perché si era pacificato con i Romani e con Guglielmo di Sicilia; che i vescovi erano suoi vassalli perché in possesso di feudi imperiali; che Roma non apparteneva al Pontefice, ma a lui che portava il titolo di Re dei Romani.
Infine disse ai legati papali, che non avevano il regolare permesso da lui accordato, pertanto vietava loro di passare attraverso il territorio dell'impero; e vietava di alloggiare nei palazzi vescovili che erano tutti di proprietà dell'impero, perché edificati sopra il suolo imperiale.
Queste dichiarazioni di Federico provocarono una delle più tremende lettere della storia; quella scritta e inviata da ADRIANO IV agli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri; redatta nei seguenti termini:
"Il vostro principe, nato da ingiusta stirpe, dimentico di ogni gratitudine e d'ogni timor di Dio, è entrato come volpe nella vigna del Signore e minaccia di distruggerla. Egli non ha mantenuto nessuna delle sue promesse; ha sempre e dovunque mentito; ribelle a Dio, da vero pagano, egli merita l'anatema. Né soltanto egli lo merita, ma (e lo diciamo per vostro avviso) chiunque gli tiene mano, chi palesemente o segretamente lo approva.
Egli ardisce paragonare alla nostra la sua potenza, come se la nostra fosse, al pari della sua, limitata a quell'angolo di terra che è la Germania, che era uno degl'infimi regni prima che i Papi la innalzassero. Come Roma è superiore ad Aquisgrana così noi siamo superiori a questo sovrano, il quale mentre si vanta della signoria del mondo, è incapace di ridurre all'obbedienza i suoi vassalli e di sottomettere la razza dei Frisi.
Egli possiede l'impero solo per merito nostro e noi abbiamo il diritto di riprendere quello che accordammo a chi credemmo capace di gratitudine. Riconducete sulla retta via il vostro principe; altrimenti, se nuovo conflitto scoppierà tra il regno e la Chiesa, anche voi sarete trascinati in un'irreparabile rovina".
L'Imperatore si rifiutò sdegnosamente, chiedendo che la questione fosse discussa in un collegio arbitrale di cardinali e di vescovi, minacciando di intendersi con la repubblica romana contro il papa. Affermava inoltre esorbitanti diritti sopra la Chiesa. Adriano non cedette. Si era già, nel 1157, adoperato a conciliare l'imperatore bizantino Emanuele Comneno con Guglielmo I di Sicilia, pacificandoli nel 1158. Continuò le sue buone relazioni col re e si avvicinò a quella parte di Milanesi, avversi all'Impero. Ad Anagni si univa in alleanza con Brescia, Piacenza, Milano (fu il primo progetto di una Lega Lombarda) e prometteva di scomunicare l'imperatore.
Ma prima del termine fissato di quaranta giorni, moriva improvvisamente ad Anagni, il 1° settembre del 1159. Venne sepolto nella cripta di S. Pietro.
« Questo prete, sorto di basso stato, --- scrive lo storico tedesco GREGOROVIUS -ebbe animo maschio e forte e stette avverso al potentissimo dei monarchi con tanto orgoglio, come se non soltanto gli fosse stato pari, ma superiore. Pregevolissima energia di volontà, grandezza conseguita per meriti suoi propri, scienza esperta della vita accrebbero in lui le doti naturali dell'animo.
«Adriano fu uomo prudente, di idee pratiche e di tempra indomita, come sogliono essere gli Anglosassoni. Pari a Gregorio VII, volle condurre ad effetto l'idea della signoria universale pontificia. Un sogno ardito".
Adriano morì in pieno disaccordo con l'imperatore, con i romani e con i normanni, mostrando però fino all'ultimo la capacità di "fronteggiare i più potenti monarchi", e fra questi uno forte, guerriero, abile, pratico, inflessibile, che però trovò ben presto sulla sua strada il successore di Adriano ch'era quanto lui forte, guerriero, pratico, inflessibile. Nei 22 anni successivi ci fu un vero e proprio scontro di due "giganti".
|