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24
Il complotto
Dopo qualche tempo, Dritarashtra investì Yudhisthira della carica di
principe ereditario.
Ovviamente ciò non poteva rendere il re particolarmente felice, in quanto
avrebbe preferito che a succedergli fosse stato il figlio Duryodhana; ma
certamente non poteva opporsi alle millenarie tradizioni vediche. Infatti,
non avendo egli potuto governare a causa della propria cecità, Duryodhana
aveva perduto il diritto automatico al trono. In quella circostanza il re
sarebbe dovuto diventare il primogenito fra i suoi figli e quelli di Pandu.
Yudhisthira era nato un anno prima, dunque aveva pieno diritto al trono.
Duryodhana moriva dall'invidia e dal dolore.
In quel periodo Bhima e Duryodhana lasciarono Hastinapura per andare a
Dvaraka, dove presero lezioni sull'uso della mazza da Balarama, il fratello
di Krishna, perfezionando ulteriormente la loro destrezza guerriera.
E sempre nello stesso periodo anche Arjuna ricevette ulteriori istruzioni da
Drona, il quale gli diede l'opportunità di migliorarsi con l'arco.
Un giorno il Pandava chiese al maestro:
"C'è qualcuno su questa Terra che può vincermi in duello?"
"Sì, c'è," rispose Drona. "E' Krishna, della razza dei
Vrishni. Egli non è un uomo come tutti gli altri, la sua origine è divina
e nessuno potrà mai sconfiggerlo. Devi stringere con lui la più solida
delle amicizie e sotto la sua protezione anche tu diventerai
invincibile."
Trascorse un anno relativamente tranquillo, durante il quale l'amore del
popolo verso i Pandava cresceva, così come lievitava l'odio di Duryodhana.
Un giorno, allo stremo della sopportazione, fece chiamare Shakuni per
parlargli.
"Non riesco più a tollerare la vista di questi maledetti che
prosperano ogni giorno di più. Il popolo è dalla loro parte, l'esercito
anche, il patriarca Bhishma nutre per loro un grande affetto, e Drona
apprezza Arjuna al punto che sembra che esista solo lui. Persino mio padre
non ha mai nascosto l'affetto per questi diabolici cugini. Sono stati abili,
non c'è che dire, a guadagnarsi la simpatia di tutti."
"Io te lo dissi tempo fa," ribatté Shakuni, "che un nemico
va distrutto subito, prima che abbia la possibilità di diventare forte
attraverso alleanze. Duryodhana, per il bene tuo e del casato a cui
appartieni, devi distruggere i Pandava!"
"Lo so bene che questa è l'unica cosa da farsi, ma abbiamo già
provato ed abbiamo fallito. Questa volta dovremo fare le cose con maggiore
accortezza perché non possiamo permetterci di sbagliare ancora, o
rischieremo di perdere i nostri alleati."
Così con Shakuni, Karna e Dusshasana, Duryodhana progettò un terribile
complotto per uccidere i Pandava.
Il primo passo fu di convincere il padre a mandare i nipoti a Varanavata per
un periodo di riposo; la cosa non fu difficile, in quanto Duryodhana
riusciva quasi sempre ad ottenere da quest'ultimo qualsiasi cosa. Dal canto
suo Dritarashtra sospettò che il figlio stesse complottando qualcosa di
grave. E tuttavia non volle ostacolarlo. Sentiva questa sua rivalità nei
confronti dei Pandava diventare ogni giorno più prepotente e pur di non
vederlo soffrire si augurava che Duryodhana riuscisse ad ottenere ciò che
desiderava in maniera non violenta.
Ottenuto il consenso del padre, Duryodhana fece costruire una grande casa
con materiali tutti altamente infiammabili e mandò sul posto Purochana, suo
fedele amico, con l'intenzione di farvi appiccare fuoco appena se ne fosse
presentata l'occasione.
A Varanavata i Pandava correvano un pericolo mortale.
25
Gli avvenimenti di Varanavata
Giunse il giorno della partenza.
Anche Vidura aveva intuito che c'era qualcosa di strano in quel viaggio
organizzato dai nipoti, e che i figli di Pandu potevano essere in pericolo.
Avendo così indagato sui retroscena dell'organizzazione del viaggio, era
venuto a conoscenza del complotto criminale, ma aveva preferito non mandare
tutto a monte in quanto sarebbe stato perfettamente inutile: Duryodhana
avrebbe sicura-mente atteso un'altra occasione per eliminare i Pandava.
Perciò durante il commiato, parlando un dialetto che solo pochi
conoscevano, rivolse oscuri messaggi di avvertimento a Yudhisthira, il quale
capì e gli sorrise con riconoscenza. Accompagnati da Kunti, i Pandava
partirono.
Già messi all'erta da Vidura, non ci misero molto ad accorgersi di come era
stata costruita la casa, per cui decisero di non fidarsi di nessuno e di
stare sempre all'erta. Durante il giorno e la notte c'era sempre uno di loro
che montava la guardia, e ciò rendeva impossibile a Purochana di appiccare
il fuoco. Ma quella situazione non poteva durare all'infinito.
"Non possiamo continuare così per sempre," rifletté a voce alta
Yudhisthira un giorno, "dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo scegliere se
affrontare apertamente i nostri cugini o nasconderci in attesa di momenti
migliori."
Bhima era del parere che non avevano bisogno di nascondersi, che potevano
con la loro forza fisica attaccare e distruggere i malvagi, ma in realtà
non era così facile.
Era vero che essi sarebbero stati in grado di sconfiggere in duello i
cugini, ma costoro non erano soli, avevano dalla loro parte gente come
Bhishma, Drona, Kripa, Karna, Asvatthama e molti altri alleati che in caso
di conflitto si sarebbero uniti a loro. Certamente quasi tutte quelle
persone erano più legate sentimentalmente ai cinque fratelli che ai figli
di Dritarashtra, ma in caso di conflitto non avrebbero potuto aiutarli
militarmente, in quanto debitori verso la corte, nella quale avevano vissuto
agiatamente e ricevuto ogni sorta d'onori per tanti anni. In caso di guerra
avrebbero dovuto combattere contro i Pandava e ciò precludeva a questi
ultimi ogni possibilità di vittoria. Di fatto tutti li apprezzavano, ma
nessuno avrebbe potuto aiutarli concretamente.
La situazione era più complicata di quanto sembrava. Erano indecisi sul da
farsi.
L'idea giusta arrivò dal buon vecchio zio Vidura. Incaricato in gran
segreto da quest'ultimo, un minatore fidato giunse a Varanavata, dove fu
accolto con calore dai Pandava.
"Mahatma Vidura mi ha mandato da voi," disse, "e vuole sapere
come state."
"Stiamo bene, ma come puoi vedere siamo minacciati da un grave
pericolo. Questa casa può bruciare in pochi istanti e noi corriamo il
rischio di ardere vivi tutti. Viviamo in uno stato di costante allerta. E
poi, cosa fare per risolvere definitivamente la minaccia che Duryodhana
rappresenta per noi?"
"Vidura mi ha spiegato la situazione," rispose il minatore,
"e mi manda a dire di non preoccuparvi. Egli vi consiglia di
nascondervi per un certo periodo, in modo che possiate prepararvi nel caso
di una guerra. Appiccate voi stessi fuoco alla casa, in modo che tutti
pensino che siete morti mentre invece starete fuggendo nelle foreste."
I Pandava accolsero il consiglio con entusiasmo.
In pochi giorni di duro lavoro, l'esperto scavatore riuscì a costruire un
tunnel che conduceva in una fitta boscaglia appena fuori la città.
Sarebbero cominciati tempi duri, ma almeno sotto un certo aspetto le cose
sarebbero migliorate: con quella mossa Duryodhana si era definitivamente
messo allo scoperto.
In una notte senza luna, in cui gli attendenti a insaputa dei Pandava
avevano ospitato una donna con cinque figli, essi appiccarono il fuoco alla
loro casa e a quella dove in quel momento Purochana dormiva. E mentre le
fiamme si levavano altissime e incontrollabili, i Pandava con la madre
fuggirono lungo il tunnel e in pochi minuti si ritrovarono all'aperto, nella
foresta, in salvo.
Il piano riuscì in pieno, nessuno sospettò niente.
Ad Hastinapura tutti versarono lacrime amare per la morte dei loro cari
principi. Anche Vidura e Bhishma, pur sapendo la verità, si videro
costretti a piangere e a disperarsi in modo da non destare sospetti.
Dritarashtra, il re cieco nel corpo e nello spirito, che aveva capito che
non era stata una disgrazia, da una parte fu sinceramente dispiaciuto, ma
dall'altra era contento perché in quel modo Duryodhana ora avrebbe potuto
ereditare il potere e ritrovare la serenità persa a causa della sua
sfrenata invidia.
26
I fratelli rakshasa
Ma ritorniamo ai Pandava.
La fuga dei cinque fratelli era tanto affannosa che Kunti non riusciva a
tenere il passo. Bhima allora prese la madre sulle spalle di modo che
poterono ricominciare a correre con maggiore velocità. Percorsero molta
strada, quella notte, in quella fitta foresta popolata solo da animali della
giungla e da rakshasa.
Qualche ora dopo, quando ritennero di essere oramai lontani da Varanavata,
si fermarono per riposare.
"Adesso siamo al sicuro," disse Bhima, "è inutile continuare
a correre nella notte. E poi nostra madre è stanca e ha bisogno di dormire.
E anche voi dovete riprendere fiato. Vi preparerò dei giacigli cosicché
potrete dormire comodamente. Io che non sono stanco farò la guardia."
Questi, da quando era iniziata quell'avventura, era sempre stato stranamente
tranquillo e non aveva commentato granché gli sviluppi della loro
situazione. Anche in quegli ultimi giorni aveva parlato poco e i fratelli lo
avevano colto spesso soprappensiero. Ma in quel momento alla vista della
madre che si apprestava a dormire all'aperto in una foresta selvaggia,
riparata solo da un albero, non riuscì più a contenere la rabbia.
"Ma come potete essere così calmi? Come riuscite a tollerare una
situazione del genere? Non vedete come siamo ridotti? Nostra madre, che
merita tutti gli onori, è costretta a correre nella foresta di notte per
fuggire da un nemico, come se non avesse nessuno in grado di proteggerla.
Noi stessi dobbiamo dormire in terra su un giaciglio di erba alla stregua di
mendicanti. Ma perché stiamo fuggendo come se avessimo di fronte un nemico
che non siamo in grado di battere? Basterebbe poco per risolvere una volta
per tutte il problema causato dall'empio figlio di Dritarashtra: prendiamo
le nostre armi e corriamo ad Hastinapura; affrontiamo Duryodhana e i suoi
degni compagni faccia a faccia e facciamola finita con loro. Anzi, se voi
non volete farlo, farò tutto io da solo. Con la sola forza delle mie
braccia distruggerò i nostri maledetti cugini e tutti i loro alleati."
"Non dire queste cose, Bhima," rispose Yudhisthira. "Non
possiamo rispondere al malvagio con la malvagità. Dobbiamo cercare di fare
qualsiasi cosa per evitare lo scontro armato. Pensaci bene cosa
significherebbe una guerra: i nostri parenti, i nostri amici, i nostri
conoscenti, tutti verrebbero coinvolti e noi contro di loro non possiamo
combattere. Non possiamo uccidere i nostri padri, zii, cugini, nonni,
maestri, amici. Sii paziente. La guerra deve essere la soluzione estrema:
quando veramente avremo realizzato che non esiste altra via d'uscita, allora
combatteremo contro di loro. Solo quando vedremo che non ci resta altro da
fare. Solo in quel caso non avremo trasgredito alle leggi divine."
Arjuna, Nakula e Sahadeva si ritrovarono d'accordo con il fratello maggiore.
Bhima insistette ancora, valendosi di altri numerosi argomenti, tutti
avvalorati da evidenze scritturali, ma non riuscì a convincerli. I suoi
fratelli avrebbero fatto ogni cosa pur di evitare una sanguinosa guerra.
Si addormentarono.
Solo Bhima rimase sveglio, seduto su di un masso. Mentre guardava la madre e
i fratelli dormire distesi sul terreno, una furia incontrollabile gli
bruciava il cuore, così violenta che si mordeva continuamente le labbra al
punto da farle sanguinare. Avrebbe dato chissà cosa pur di afferrare la sua
mazza e correre ad Hastinapura a massacrare i nemici, ma non poteva
disobbedire a Yudhisthira, che era il fratello maggiore e che rispettava e
amava sopra ogni altra cosa. Tuttavia quello che aveva imposto al suo corpo
non era riuscito a farlo anche al cuore, sempre convinto di volere solo una
cosa: la distruzione di tutti i figli di Dritarashtra. E nella sua mente non
potevano esserci altro che pensieri di vendetta.
Era notte fonda.
Non lontano dal loro accampamento, vivevano un rakshasa di nome Hidimba e la
sorella Hidimbi. Da anni i due spargevano morte e dolore e gli abitanti di
quella regione tremavano solo a sentirne parlare. E accadde che, nonostante
la lontananza, Hidimba sentì la loro presenza.
"Sento odore di carne umana," disse alla sorella, "ci devono
essere degli uomini non lontano da noi. Saranno degli stranieri. Non sanno
che questa è la mia foresta? Che folli sono stati ad avventurarsi in un
posto come questo senza conoscerlo. Sorella, vai lì subito. Ho fame: dunque
uccidili e portami le loro carni."
Prontamente Hidimbi obbedì e corse nella direzione che il fratello le aveva
indicato, finché, giunta sul posto, vide cinque figure che dormivano e una
che montava la guardia seduta su di un masso: era un uomo, dallo sguardo
furibondo, che stringeva i pugni per la rabbia e mormorava terribile
minacce. Osservandolo meglio, notò il portamento nobile, il corpo possente
e i lineamenti magnifici. In quel momento le frecce di Kamadeva colpirono il
cuore della rakshasi che abbandonò qualsiasi pensiero omicida.
"Come si può ammazzare un uomo così bello e nobile?" pensò.
"Non riuscirò mai a farlo. Mi piace, mi ha stregato il cuore, e non
riesco neanche a pensare di doverlo eliminare. Al contrario, userò le mie
arti per convincerlo ad accettarmi come moglie e ad amarmi."
Rapita dall'amore per Bhima dimenticò il demoniaco fratello che intanto
diventava sempre più impaziente di gustarsi il prelibato pranzetto
procuratogli da Hidimbi. Così, quando dopo i primi at-timi di sbandamento
costei si ricordò della sua missione, le crollò il mondo addosso.
"Se non gli obbedisco, mio fratello è capace di ucciderci tutti."
Per un po’ fu torturata dall'incertezza, poi il forte sentimento d'amore
che aveva inesorabilmente stregato il suo cuore prevalse sulla paura, per
cui assunte le fattezze di una avvenente ragazza, uscì dal nascondiglio e
andò incontro a Bhima. Quando questi la vide sospettò subito che la
fanciulla nascondeva qualcosa di strano.
"Chi sei?" le chiese. "Cosa fa una ragazza giovane come te in
una foresta infestata da animali feroci e da rakshasa? Sei tu stessa un
rakshasa? Si sa che questi esseri demoniaci possono prendere qualsiasi
fattezza, anche quelle di una donna giovane e carina."
Lei non tentò neanche di mentire; sapeva che aveva poco tempo per salvarli
dal crudele fratello.
"Io sono Hidimbi, la sorella del rakshasa Hidimba. Mio fratello ha
sentito la vostra presenza e mi ha mandata qui per uccidervi, così da
potersi sfamare. Ma io, dopo averti visto, non me la sono sentita. Voi
correte un pericolo mortale. Vi prego fuggite immediatamente. E' già
parecchio tempo che sono partita, perciò fra poco mio fratello comincerà
ad insospettirsi del ritardo e verrà di persona."
Bhima capì il sentimento che spingeva la rakshasi a metterli in guardia, ma
non provò alcuna apprensione.
"Se tuo fratello vuole venire a combattere, che venga pure,"
rispose scrollando le spalle. "E se vuole cibarsi dei nostri corpi, se
li guadagni. Mia madre e i miei fratelli hanno camminato per tutta la notte
e sono stanchi; di certo non li sveglierò per un rakshasa."
"Mio fratello ha la forza di centinaia di elefanti," rispose la
ragazza alquanto sorpresa da quelle parole, "e nessuno mai è riuscito
a vincerlo in duello. Ti prego, tu non sai ciò che dici: fuggite senza
perdere altro tempo."
Bhima non restò per nulla impressionato dalla descrizione della forza del
rakshasa e continuò a dirle che non aveva alcuna intenzione di disturbare i
suoi familiari.
Nel frattempo l'affamato Hidimba cominciava a chiedersi la ragione di tanto
ritardo e a scalpitare per l'impazienza; dopo un po’ pensò che fosse
meglio andare a vedere di persona cosa stava succedendo. Ci si può
immaginare la rabbia e lo stupore del demone quando, giunto sul posto, trovò
la sorella che parlava allo sconosciuto, e si avvicinò per sentire ciò che
diceva. Quando la sentì metterlo in guardia del pericolo che correvano, un
violento colpo d'ira gli offuscò la vista e gridò con furia inaudita:
"Vi ucciderò tutti!"
E si lanciò contro di loro. Vedendo il rakshasa sopraggiungere minaccioso,
Bhima si alzò di scatto e gli corse incontro. La collisione dei due corpi
fu così violenta che produsse un rumore forte come un tuono. La lotta
diventò subito furibonda: una nuvola di polvere circondava i due avversari
che si battevano con ogni arma che trovavano a disposizione, alberi e rocce
compresi. Il clamore di quella battaglia svegliò i fratelli e la madre che
si resero subito conto della situazione. Arjuna voleva intervenire, ma i due
corpi erano così vicini l'uno all'altro e si muovevano con tale rapidità
che sarebbe stato facile sbagliare bersaglio, per cui decise di lasciar fare
a Bhima.
Fu solo dopo diverse ore che il terribile duello si risolse a favore del
Pandava. Afferrato il rakshasa in una stretta ferrea, facendo leva sul suo
possente ginocchio gli spinse un braccio sul collo e l'altro sulle gambe,
spezzandogli la spina dorsale. Hidimba lanciò un grido spaventoso e perì.
Era l'alba, il sorgere del sole segnò la fine del combattimento.
Poiché oramai la notte era trascorsa, i Pandava si prepararono a lasciare
quel posto e misero insieme le cose che avevano portato con loro. La
rakshasi Hidimbi era ancora lì, che guardava Bhima senza dire una parola. E
anche quando si furono avviati, lei li seguì, senza parlare. Kunti, che
aveva compreso il sentimento della donna, disse al figlio:
"Bhima, quella ragazza ti vuole per marito. E' stata lei ad aiutarci,
andando contro il volere del fratello. Ora non ha nessuno che può
proteggerla e credo proprio che tu debba accettarla e contraccambiare i suoi
sentimenti."
"Ma Yudhisthira non è ancora sposato," ribatté Bhima, "e
non è corretto che io lo faccia prima di lui senza il suo consenso. Chiedi
dunque al mio fratello maggiore, e se lui non avrà nulla da obiettare, io
sposerò questa rakshasi."
Yudhisthira diede il suo consenso, e il giorno stesso i due si sposarono e
andarono a vivere da soli per un certo periodo.
Dalla loro unione nacque un figlio, Ghatotkacha, che in poco tempo divenne
forte come il padre. Dopodiché Bhima salutò la moglie e il figlio e si
riunì ai familiari, che ripresero il viaggio.
27
Ad Ekachakra
A quel punto bisognava scegliere il luogo adatto dove nascondersi. Infatti
il periodo tranquillo che aveva seguito l'unione di Bhima con Hidimbi non
aveva certo cancellato il grave problema che avvelenava la loro esistenza, e
cioè la persecuzione del cugino Duryodhana.
Durante il loro cammino in quella foresta intricata incontrarono Vyasa, il
quale consigliò loro di recarsi a Ekachakra, un piccolo paese situato a
oriente, abitato da gente pia e religiosa, dove avrebbero potuto visitare
numerosi luoghi santi. Seguendo, come sempre, i consigli benefici del
saggio, il piccolo gruppo si diresse verso Ekachakra.
Quando furono in vista del paese, Arjuna si preoccupò di come si sarebbero
dovuti presentare e di cosa avrebbero dovuto fare.
"Ora dovremo travestirci," disse. "Non possiamo farci
riconoscere, altrimenti Duryodhana manderebbe subito il suo esercito ad
eliminarci. E' meglio non affrontarlo ancora così apertamente."
"Ci travestiremo da brahmana poveri," concluse Yudhisthira,
"e cercheremo ospitalità presso qualcuno che possa offrircela. Per
quanto riguarda il nostro mantenimento, chiederemo l'elemosina come fanno
tutti coloro che appartengono a quest'ordine."
Così travestiti, i Pandava e la madre entrarono nel paese e cercarono una
dimora dove soggiornare; non tardarono a trovarla presso una famiglia di
brahmana semplici e pii, che misero a loro disposizione alcune stanze.
Trascorsero giorni tranquilli.
A parte Bhima che aveva il problema della quantità di cibo sempre troppo
scarsa per lui, i Pandava erano contenti e impiegavano il tempo in modo
proficuo studiando i testi sacri e andando in questua solo per quel tanto
che bastava per la loro sopravvivenza. Ma anche quel periodo di serenità fu
ad un certo punto scosso da un dramma che li avrebbe coinvolti.
Accadde che un giorno Kunti udì involontariamente dei lamenti accorati
provenienti dalle stanze della famiglia che li ospitava: erano dei pianti
così convulsi e disperati che si preoccupò molto e volle conoscerne le
cause.
"Cos'è successo di tanto grave? Perché piangete così? Ditemene le
ragioni," chiese gentilmente.
"E' possibile che non sappiate quale calamità ci sta facendo soffrire?
Sono tanti anni che la nostra esistenza è un inferno, e vivere in questa
regione è oramai diventato impossibile. Ciò che sta accadendo è
terribile," rispose il brahmana che stringeva a sé la moglie e i due
figli.
A fatica Kunti riuscì a farsi raccontare ciò che rendeva tanto dolorosa la
vita dei nuovi amici.
"Tempo fa un forte rakshasa di nome Baka arrivò a Ekachakra e subito
cominciò delle scorribande terribili: entrava nei paesi e ne massacrava gli
abitanti, rubando e portando via qualsiasi cosa volesse. Il nostro re tentò
di intervenire, ma avendo capito che questi era troppo forte per lui, non
tentò neanche di combattere e come un codardo fuggì lontano. A quel punto
la situazione era diventata insostenibile: non si sapeva come porre fine
alle stragi e alle razzie, quando gli anziani del paese riuscirono a
trattare con quel demonio. Alla fine costui ha accettato di cessare le sue
azioni nefande, a patto però che ogni settimana una famiglia gli mandi alla
caverna in cui vive uno di loro alla guida di un carro colmo di cibo,
trainato da otto muli. Come potete immaginare, il rakshasa mangia tutto,
compreso il conducente. Questa settimana tocca alla mia famiglia sacrificare
qualcuno, e uno di noi dovrà morire."
Tanto dolore colpì Kunti che pensò di sdebitarsi con il brahmana per
l'ospitalità ricevuta.
"Per favore, non piangete più," disse loro Kunti, "non
preoccupatevi più per il rakshasa. Io risolverò il problema che assilla il
vostro paese. Mio figlio andrà al vostro posto, e condurrà il carro fino
alla caverna di Baka; poi porrà fine a quell'esistenza malvagia."
Il brahmana era esterrefatto; da una parte avrebbe voluto aggrapparsi a
quello che sembrava uno spiraglio di salvezza per sé e per la sua famiglia,
ma dall'altra non intendeva mettere a repentaglio la vita del giovane, che
pensava fosse un ragazzo comune. Così disse:
"E' un suicidio, non posso accettare la tua proposta."
"Mio figlio non corre alcun pericolo," rispose Kunti. "Tu non
sai della sua grande forza, che non conosce rivali. Non temere, non ci sono
rischi per lui; al contrario è il rakshasa a dover avere paura."
Il brahmana, convinto da quelle argomentazioni, accettò.
La sera stessa la madre raccontò ogni cosa a Bhima.
"Figlio," concluse Kunti, "abbiamo un dovere di riconoscenza
verso queste persone che ci hanno offerto asilo per così tanto tempo e
anche nei confronti della virtuosa gente di questo paese. Voi che siete
kshatriya, guerrieri, avete il dovere di difendere la gente debole e di
uccidere tutti coloro che disturbano la pace e la religione. Dunque io credo
che dovresti andare dal rakshasa e distruggerlo. Inoltre, tu sei sempre
affamato e il cibo che otteniamo mendicando è sempre così scarso: andando
da Baka con il carro potresti sfamarti con ciò che è destinato a
lui."
Bhima non si tirò indietro, anzi accettò quel compito con esultanza. Era
felice di avere in tal modo l'opportunità di fare qualcosa per quella
famiglia che era sempre stata tanto gentile con loro, e allo stesso tempo si
sentiva anche risollevato alla prospettiva di potersi finalmente sfamare in
modo soddisfacente.
Partì il giorno stesso.
Ci volle qualche ora di viaggio per giungere sul posto dove si trovava la
caverna di Baka. In un primo momento pensò di causare qualche rumore per
richiamare il rakshasa, ma subito ci ripensò.
"Se uccido ora il rakshasa poi dovrò digiunare interi giorni per
purificarmi dal contatto con quell'essere immondo. In questo periodo ho
mangiato troppo poco per attendere altro tempo, per cui è meglio che prima
mangio e poi lo affronto."
Il potente Pandava cominciò a mangiare voracemente l'ottimo cibo,
provocando con le mandibole forti rumori. Il rakshasa udì lo strano suono
che proveniva dall'esterno e uscì per vedere cosa stesse accadendo. Ciò
che gli si prospettò alla vista lo lasciò per un attimo impietrito dalla
sorpresa: la vittima, invece di gridare e chiedere pietà come avevano
sempre fatto le altre, per nulla preoccupata del pericolo, stava mangiando
tutto il suo cibo.
Superata la sorpresa, Baka tuonò contro Bhima e non ottenendo risposta gli
si scagliò contro con furia inaudita; ma questi non si scompose e continuò
a mangiare finché non ebbe terminato. Poi si alzò e si scatenò. Al
termine della furibonda lotta, il rakshasa giaceva a terra privo di vita.
Bhima, allora, trascinò il gigantesco corpo fino alle porte del paese e lo
lasciò lì, in modo che tutti potessero vederlo. Poi, prima che qualcuno
potesse scorgerlo e sospettare chi in realtà fosse, fuggì. Certamente
quella non poteva essere stata un'impresa fatta da un povero brahmana.
Ci fu una grande festa per la morte di Baka e per la fine di quell'incubo.
Grazie a Bhima, ora si poteva vivere serenamente.
28
La notizia del torneo
Dopo quegli avvenimenti i Pandava rimasero graditi ospiti nella casa del
brahmana.
Erano passati alcuni mesi, quando un giorno un pellegrino che si trovava di
passaggio nel paese, rimase a pranzo presso di loro: in quella occasione gli
fu chiesto cosa stesse accadendo di importante in giro. Questi non si fece
pregare e cominciò a raccontare di un importante svayamvara che stava per
avere luogo nella capitale del regno di Panchala.
"Non so se siete a conoscenza della storia del re Drupada," disse,
ignaro della vera identità dei suoi interlocutori, "e dell'odio che
nutre per Drona. Dopo essere stato duramente umiliato, egli ha vagato nelle
foreste per molti anni, rivolgendosi a numerosi asceti; voleva dedicarsi
alle pratiche dello yoga e della rinunzia per acquisire il potere di
compiere grandi sacrifici. Sapeva bene che il solo valore militare non
avrebbe mai potuto fargli ottenere la vendetta su Drona il quale, grazie a
Parashurama, è diventato praticamente invincibile. Drupada voleva
guadagnarsi il potere brahmanico, che sgorga dalle pratiche della rinuncia.
Dopo tanto tempo e innumerevoli austerità, Drupada è riuscito a celebrare
un sacrificio del fuoco in collaborazione con dei monaci molto potenti, e
grazie a loro ha avuto due figli, un maschio e una femmina, nati
direttamente dal fuoco del sacrificio: Drishtadyumna e la seconda, la
meravigliosa Draupadi. Sono personaggi celestiali discesi su questo mondo
con una precisa missione: Drishtadyumna con lo scopo di uccidere Drona, e
Draupadi con quello di causare indirettamente la morte di milioni di
guerrieri. Da allora Drupada ha ritrovato la serenità, perché sa che per
la sua vendetta deve soltanto aspettare. Quei due figli hanno sempre
arrecato al re grandi soddisfazioni. Ora per Draupadi è arrivato il momento
di sposarsi, però il re vuole darla solo a una persona che sia in possesso
di qualità realmente straordinarie. Per questo ha indetto uno svayamvara,
un torneo, e chi ne riuscirà vittorioso potrà sposare la fanciulla."
Ci fu un momento di silenzio; poi il viandante continuò.
"Ma tutti dicono che esso sia costituito da una prova così difficile
che solo Arjuna avrebbe potuto superarla, per cui dopo la sua morte sembra
che praticamente nessuno potrà farcela."
L'ospite poi parlò di Draupadi, descrivendola con toni talmente ammirati
che i Pandava provarono una così forte attrazione per una simile bellezza
che desiderarono andare a vederla.
La sera stessa ne parlarono con Kunti, la quale convenne che la cosa
migliore sarebbe stata andare a Kampilya. Dicevano che erano solo curiosi di
ammirare Draupadi, ma era chiaro che tutti speravano di averla in moglie.
Fu un viaggio che durò qualche giorno, non privo di avventure e situazioni
particolari.
Una notte Arjuna si imbatté nel gandharva Citraratha, con il quale ebbe
dapprima un acceso alterco, e poi uno scontro armato. Il valoroso figlio di
Pandu ebbe la meglio sull'abitante dei pianeti celesti ma, nonostante il
duello, i due diventarono grandi amici. Fu Citraratha, in quell'occasione,
che suggerì loro di accettare un maestro spirituale prima di arrivare a
Kampilya. In quei paraggi viveva il celebre rishi Dhaumya, e i Pandava
furono felici di ottenere l'iniziazione spirituale da quel grande saggio
che, a sua volta, decise di seguirli durante i loro spostamenti.
29
Lo svayamvara di Draupadi
Dopo alcuni giorni i Pandava arrivarono a Kampilya, la stupenda capitale del
regno di Panchala.
Dopo aver trovato ospitalità nella casa di un vasaio, i cinque fratelli
cominciarono a vagare per la città, che trovarono pervasa da un'atmosfera
di festività quasi frenetica, con fiumane di persone che arrivavano e le
strade erano continuamente percorse, tanto che durante il giorno e la notte
non erano vuote un solo istante. Da tutta Bharata-varsha arrivava in
continuazione gente di ogni tipo. Rallegrata da festoni e bandiere, con gli
ampi viali continuamente cosparsi di acqua di rose, pulita e opulenta come
non mai, Kampilya sembrava davvero una città celeste. I Pandava,
irriconoscibili nel loro travestimento, ad un certo punto si accostarono a
uno dei numerosi gruppetti di persone che confabulavano per la strada per
ascoltare quello che dicevano.
"Pensate che il nostro re," sosteneva uno di loro, "ha fatto
costruire un arco così pesante che in pochi riuscirebbero persino solo a
sollevarlo, e così rigido che pochissimi potrebbero tenderlo. Che dire poi
di porvi una freccia e farla partire! Inoltre nel suo anfiteatro appena
costruito, è stata appesa a una volta una forma simile a un pesce con una
ruota che le gira davanti in continuazione e che ha un solo orifizio dal
quale si può individuare il bersaglio. E l'arciere dovrà colpire
esattamente l'occhio del pesce. Ma non è tutto qui. Pensate che l'arciere
non potrà neanche guardare direttamente in alto, ma dovrà mirare guardando
il riflesso in una vasca di acqua mossa."
"E' una prova praticamente impossibile per chiunque," diceva
qualcuno.
"Forse Karna ce la potrebbe fare," ribatteva qualche altro.
"Forse, ma potete essere sicuri che Draupadi non accetterebbe mai di
sposare un uomo di casta inferiore. Piuttosto si getterebbe nelle
fiamme."
"Eh, Arjuna sicuramente ce l'avrebbe fatta, ma purtroppo è caduto
vittima delle losche trame del malvagio figlio di Dritarashtra."
"Il vile Duryodhana..."
"Sapete, in segreto il re ha sempre desiderato dare sua figlia ad
Arjuna, che ha ammirato quando tempo fa lo ha affrontato sul campo di
battaglia..."
Nei giorni che seguirono i Pandava continuarono a visitare la stupenda e
ricca capitale, e trascorrevano il tempo mendicando e studiando le
scritture.
Poi giunse l'agognato giorno del torneo.
Arjuna si alzò di buon'ora e dopo aver svolto le sue pratiche spirituali
mattutine, accompagnato da Bhima, uscì di casa e si diresse verso il
gigantesco anfiteatro dove si sarebbe celebrato lo svayamvara. Già gremito
di centinaia di migliaia di persone vocianti sugli spalti, questo costituiva
una cornice davvero impressionante al torneo. I due fratelli si guardarono
attorno e poterono constatare con meraviglia che erano affluiti a Kampilya
quasi tutti i re e i principi della terra. Nelle tribune riservate ai
monarchi riconobbero i figli di Dritarashtra con a capo Duryodhana, poi
Karna, Shalya, e migliaia di altri.
Ma quando Arjuna volse lo sguardo in direzione del settore riservato ai
Vrishni, notò una figura stupenda e ornata da ghirlande e gioielli di vario
tipo; non lo aveva ancora incontrato, ma Drona gliene aveva parlato così
tanto che non poté non riconoscere Krishna e suo fratello Balarama,
accompagnati da amici e familiari. Guardò a lungo quel personaggio divino,
colui che tutti dicevano fosse un'incarnazione della Suprema Personalità di
Dio. Bhima, invece, avendo scorto Duryodhana nel settore riservato ai Kurava,
si sentì ribollire di un'ira insostenibile che solo a fatica riuscì a
trattenere.
Poi si fece silenzio: fu annunciata la principessa Draupadi che nata dal
fuoco sacrificale per volere dei deva entrò, brillante come un sole. Tutti
rimasero senza fiato, colpiti e in piena ammirazione per quella bellezza
straordinaria; sulla terra mai si era vista una donna così incantevole e
aggraziata. Camminando con portamento che rivelava grande modestia, Draupadi
si sedette a fianco del padre. E, come tutti gli altri, in cuor suo Arjuna
non desiderò altro che di averla come sposa.
Prima Drupada e poi il figlio Drishtadyumna fecero un breve discorso,
spiegando le regole della gara; poi fu introdotto l'arco e la ruota che
disturbava il passaggio delle frecce fu messa in moto. A turno potenti re,
generali di eserciti e celebri guerrieri si susseguirono l'uno dopo l'altro
nel tentativo di colpire il bersaglio: Duryodhana e i suoi cento fratelli,
Shakuni, Asvatthama, Bhoja, Virata e i suoi figli, Bhagadatta, Shalya,
Somadatta, Jayadratha, Jarasandha e centinaia di altri tentarono di colpire
il bersaglio, ma tutti fallirono. Furenti e umiliati, tornavano a sedere,
guardando con rimpianto la meravigliosa principessa che aveva
irrimediabilmente rubato i loro cuori.
Ad un certo punto ogni rumore cessò e uno strano silenzio, quasi di paura,
invase gli spalti: alzatosi dal suo seggio d'oro, Karna, con la sua figura
alta e imponente, si faceva avanti con incedere regale. Creduto morto Arjuna,
tutti pensavano che egli fosse l'unico arciere al mondo capace di colpire il
bersaglio.
Il figlio di Surya impugnò l'enorme arco, lo sollevò senza alcuno sforzo
apparente e vi fissò una freccia: poi con la stessa facilità tirò la
corda verso di sé. Drupada sentì un tuffo al cuore, aveva paura che Karna
riuscisse nell'impresa; non voleva che sua figlia andasse in sposa a lui, in
quanto, nel suo intimo, sperava che fossero fondate certe voci di strada che
circolavano ultimamente, le quali volevano ancora vivi i figli di Pandu. E
anche Draupadi avrebbe voluto sposare Arjuna, del quale aveva tanto sentito
parlare come di un uomo favoloso e guerriero invincibile.
D'un tratto si udì echeggiare nell'anfiteatro la voce della principessa,
forte e decisa.
"Tutti possono provare a colpire il bersaglio," proclamò,
"ma in quanto a sposare il vincitore voglio che si sappia che non
accetterò mai un marito appartenente alla classe dei suta."
Karna rimase esterrefatto. Ancora quella maledizione che lo perseguitava!
Ancora lo chiamavano figlio di auriga! A quelle parole, dette con lo scopo
di scoraggiare Karna, un forte mormorio si levò dalle gradinate e lui,
umiliato e deconcentrato, scagliò la freccia con precipitazione, mancando
il bersaglio solo per pochi millimetri. Allora, furibondo, gettò l'arco in
terra e tornò a sedersi, con il viso sconvolto dalla rabbia. Nel vedere
fallire l'arciere migliore del mondo, qualcuno dei monarchi presenti cominciò
a innervosirsi.
"Drupada, non capiamo cosa tu abbia avuto in mente mettendoci di fronte
a una prova impossibile. Hai visto? Persino Karna non ce l'ha fatta, anche
se bisogna ammettere che le parole taglienti di tua figlia lo hanno
disturbato. Sembra quasi che tu non voglia darla a nessuno. E se ciò è
vero, perché ci hai fatto venire qui?"
"Forse tu volevi solo umiliarci e divertirti alle nostre spalle
vedendoci fallire," disse un altro con cipiglio furioso.
"Se così è, meriti sicuramente una punizione."
"Pagherai la tua impudenza con la vita," gridarono altri.
Il nervosismo cresceva sempre di più, tanto che il settore riservato ai re
si agitava come un mare in tempesta e si udivano proferire parole furibonde.
La piega che la situazione aveva preso fece temere il peggio a Drupada.
Qualcuno già metteva mano alle armi.
Ma d'un tratto una voce proveniente dal palco riservato ai brahmana si levò
così forte che tutti tacquero; era Arjuna, che chiedeva il permesso di
parlare.
"Le leggi che osserviamo da millenni non vietano alle classi superiori
di provare a cimentarsi anche in dimostrazioni che non sono pertinenti ai
propri ruoli," affermò lui. "Dunque chiedo il permesso di provare
anch'io a colpire il bersaglio."
Drupada osservò quello strano brahmana: per appartenere a una classe per la
quale lo studio delle scritture e la pratica delle austerità e delle
penitenze sono le regole fondamentali, si presentava singolarmente robusto e
il suo portamento era fiero e nobile: qualità queste che normalmente si
riscontrano negli kshatriya. Le parole pronunciate da Arjuna erano giuste:
nessuna legge impediva ai brahmana di cimentarsi in prove di destrezza
militare.
"Sei libero di provare, se lo desideri," rispose Maharaja Drupada.
Quando Arjuna scese gli scalini, gli kshatriya presenti bisbigliavano tra
loro, irritati: come poteva un debole brahmana riuscire dove i guerrieri più
possenti del mondo avevano fallito? Ma quando lo videro afferrare con
sicurezza e senza nessuno sforzo l'arco e porvi una freccia, i rumori
cessarono d'un colpo, tanto che sembrava che tutti stessero trattenendo il
respiro. La freccia partì e, saettando nell'aria, andò a colpire in pieno
il bersaglio. E non contento, con una velocità impressionante, il figlio di
Indra spedì ben altre sette frecce nello stesso punto, dividendo a metà
quella scagliata precedentemente. Draupadi era stata vinta.
Dopo un momento di silenzio incredulo, dagli spalti si levarono clamori di
stupore e indignazione. Guardandosi attorno, Bhima capì che la situazione
si stava scaldando, così si preparò all'azione.
Draupadi, intanto, guardava quel giovane brahmana tanto forte e abile e
qualcosa le suggeriva che quello poteva essere Arjuna, e che i suoi sogni
potevano essersi avverati. Si alzò, scese nell'arena e gli pose la
ghirlanda al collo: era il segno che lo aveva accettato come marito. A quel
punto i mormorii si fecero altissimi: quel gesto aveva scatenato il
nervosismo fin troppo represso di tutti. Shalya, Somadatta, Jayadratha e
mille altri, sentendosi feriti nel loro orgoglio di guerrieri, inveirono
violentemente contro il brahmana, e contro Drupada, che gli aveva permesso
di tentare. A decine si alzarono dai seggi e, con le armi in pugno, si
riversarono nell'arena come un fiume in piena, vogliosi di combattere.
Arjuna e Bhima proteggevano il re e, scontrandosi con i monarchi infuriati,
ingaggiavano spettacolari duelli contro Duryodhana e Shalya, e Karna e tutti
gli altri.
Trascendentale alle passioni del mondo, libero dalla schiavitù del
desiderio e della collera, con gli occhi tanto simili ai petali del fiore di
loto, Krishna osservava la scena. Sembrava quasi divertito, e sorrideva:
sapeva bene chi fossero quei brahmana in realtà.
La situazione degenerò e gli kshatriya presero a combattersi tra di loro,
rispolverando vecchi rancori, rendendo generale la confusione. Approfittando
del momento in cui sembrava che la conquista di Draupadi fosse diventata una
questione secondaria, i due Pandava, presa l'avvenente donna con loro,
uscirono precipitosamente dall'arena e si diressero verso la casa dove erano
ospiti.
Arrivati sulla soglia di casa, allegri per la vittoria ottenuta, chiamarono
la madre e dissero in tono scherzoso:
"Madre, abbiamo portato un dono!"
"Qualsiasi cosa sia," rispose Kunti dall'interno, "il vostro
solenne impegno deve essere di dividerlo in cinque."
A quei tempi la veridicità di parola era uno dei principi fondamentali e
uno dei valori a cui si dava maggiore importanza; in quel modo si imparava a
controllare la lingua. Perciò, sebbene Kunti non fosse a conoscenza del
dono che i figli avevano portato, questi ultimi avrebbero dovuto dividere
Draupadi tra loro.
I Pandava erano costernati: come potevano fare? Ne discussero a lungo, e
l'unica soluzione sembrava quella di sposarla tutti e cinque; ma era giusto?
Rispondeva alle leggi della moralità e di Dio? Decisero di fare in quel
modo; ma il dubbio rimaneva. Comunque quando Draupadi seppe che i suoi
cinque mariti sarebbero stati i Pandava provò una gioia immensa. Il suo
desiderio era stato esaudito.
30
L'incontro dei Pandava con Krishna
Sicuri che quei valorosi guerrieri non potevano essere altri che i Pandava,
Krishna e Balarama li avevano seguiti ed erano arrivati alla casa del vasaio
proprio nel momento in cui i fratelli stavano ancora discutendo del problema
del loro matrimonio.
I due entrarono e dissero:
"Siamo Krishna e Balarama, vostri cugini..."
I cinque fratelli per un attimo li guardarono smarriti, poi si alzarono e li
abbracciarono con grande trasporto.
Si ricorderà che Kunti era la figlia di Sura e aveva un fratello di nome
Vasudeva, il padre di Krishna e Balarama. Kunti rispose con gioia agli
slanci dei nipoti e chiese loro notizie del padre. Si sedettero e parlarono
per tutto il giorno. In special modo tra Krishna e Arjuna nacque subito
un'amicizia molto solida.
Ma i due fratelli trascendentali non erano stati i soli a capire che quei
due brahmana non potevano essere ciò che sembravano. Infatti anche Drupada
e Drishtadyumna decisero di indagare. E non vi sono parole per descrivere la
felicità dei due quando scoprirono chi veramente era quel brahmana che
aveva centrato il bersaglio e aveva sconfitto Karna in duello! Tuttavia tali
sentimenti di esultanza si raggelarono e lasciarono il posto allo stupore e
allo sdegno non appena costoro seppero che Draupadi avrebbe sposato tutti e
cinque i fratelli. A quei tempi era normale che un uomo prendesse più
mogli, ma non lo era altrettanto per una donna unirsi a più mariti; dunque
la forte perplessità mostrata da Drupada nell'accettare la cosa era più
che giustificata. Per amore della verità bisogna ricordare che nella storia
vedica c'erano stati già dei precedenti del genere, ma rari e tutti
motivati da specialissime ragioni.
Allo scopo di discutere dell'intricata questione che coinvolgeva numerose
problematiche etiche e religiose, il giorno dopo i Pandava si recarono a
corte. Tuttavia la situazione si risolse più facilmente del previsto grazie
all'arrivo di Vyasa, il quale raccontò episodi della vita precedente dei
Pandava e di Draupadi. Alla fine del racconto il monarca di Panchala
acconsentì alle insolite nozze, che furono celebrate pochi giorni dopo.
Ora i Pandava erano usciti dalla situazione di pericolo, non avevano più
bisogno di nascondersi; avevano validi alleati, come Drupada e i suoi figli,
Krishna e tutti i Vrishni. Con amici di questo calibro potevano
tranquillamente mirare a riprendersi il regno che spettava loro di diritto.
31
L'apparente riconciliazione
La notizia che i figli di Pandu erano vivi e che il brahmana che aveva vinto
Draupadi altri non era che Arjuna si diffuse velocemente.
Ad Hastinapura ci furono momenti di autentico panico; Duryodhana,
terrorizzato, cominciò subito a fare piani per annientarli, ma questa volta
Vidura, Bhishma e Drona non solo lo smascherarono pubblicamente insieme ai
suoi amici, ma riuscirono anche a portare solidi argomenti per convincere
Dritarashtra a fare la pace con coloro che, in fin dei conti, erano i figli
di suo fratello minore che egli aveva tanto amato.
Tuttavia Duryodhana fu molto chiaro nello specificare che fra loro non
avrebbe mai potuto esserci un rapporto di fratellanza o di amicizia. Dunque
il problema era di accontentare entrambi. Non era facile.
Dritarashtra allora indisse un consiglio generale per tentare di trovare una
soluzione alla crisi che sarebbe potuto diventare gravissima. Tutti i
personaggi più importanti e rispettati della corte Kurava vi parteciparono
ed esposero le loro opinioni.
Duryodhana diede inizio al simposio sostenendo: "I Pandava sono i
nostri nemici, lo sono sempre stati. E ora che hanno trovato alleati come i
Vrishni e i Panchala si scateneranno contro di noi e tenteranno di
distruggerci. Noi dobbiamo capire che costituiscono una continua minaccia,
per cui dobbiamo utilizzare tutte le armi a nostra disposizione al fine di
renderli più deboli. Io propongo di corrompere i loro alleati e tentare di
seminare dissensi fra i Pandava stessi; solo così li avremo in pugno."
Karna disse: "Io sono d'accordo con Duryodhana quando dice che i
Pandava sono i nostri nemici giurati e che vanno combattuti; tuttavia non
convengo con i metodi che egli suggerisce. Un guerriero veramente valoroso
non ha bisogno di corruzione né di seminare dissensi tra i suoi nemici,
anche perché noi siamo militarmente più forti. Dunque comportiamoci da
valorosi, scendiamo sul campo di battaglia e distruggiamoli. Solo così nei
secoli futuri il nostro nome non sarà macchiato dall'infamia."
Bhishma, Vidura e Drona dissero: "Sbagliate quando sostenete che i
figli di Pandu sono nostri nemici; essi fanno parte della nostra stessa
famiglia. E' vero che essi sanno che più di una volta avete attentato alle
loro vite, ma è anche vero che sono molto virtuosi; e se noi cominceremo ad
agire secondo giustizia, pur di non versare sangue fraterno sono disposti a
dimenticare i torti subiti. Dobbiamo fare pace, e restituire ciò che spetta
loro di diritto."
Asvatthama disse: "I Pandava sono tra i miei amici più cari, e quindi
non condivido le intenzioni bellicose di Duryodhana e di Karna. Non
dimentichiamo la lealtà e la giustizia, i valori sui quali si poggia la
nostra vita. Non scendiamo al livello più basso; ricordiamoci dei principi
della verità."
E così come Bhishma, Drona, Vidura e Asvatthama, tutti i monarchi e i saggi
giusti e virtuosi si pronunciarono contro i vili propositi del malvagio
principe. E Duryodhana capì di essere sorretto solo da Karna, da Shakuni e
dai suoi fratelli; in realtà neanche questi ultimi erano veramente
d'accordo, davano ragione a lui solo perché gli erano affezionati.
Duryodhana era isolato.
"Non importa cosa si deciderà qui," disse a voce bassa a Karna.
"In caso di guerra tutti saranno costretti a combattere per me, anche
se a loro non farà piacere."
Alla fine Dritarashtra convenne: "Avendo ascoltato tutti voi, io credo
che la pace con i Pandava sia la migliore e la più giusta delle soluzioni.
Vidura stesso andrà a Panchala per parlare ai nostri nipoti e per invitarli
qui, ad Hastinapura, per avere un colloquio chiarificatore."
Duryodhana non replicò: aveva realizzato che in quel momento gli sarebbe
convenuto maggiormente nascondere le proprie intenzioni bellicose; anche se
fosse stato costretto a una tregua, pensò che in tempo di pace avrebbe
potuto trovare meglio la maniera di distruggerli senza correre rischi.
Vidura partì il giorno stesso e fu ricevuto da tutti con grande affettuosità
e rispetto. Appena arrivato aveva trovato gli eserciti Vrishni e Panchala in
stato di allarme, pronti a cominciare una guerra nel giro di pochi giorni.
Anche Krishna era lì, con tutti i suoi familiari.
"Ho un messaggio da parte di vostro zio Dritarashtra," disse il
saggio Vidura dopo i saluti. Dice: "Sono contento che siete ancora
vivi, ma ho saputo che covate desideri di vendetta, tanto che addirittura
volete combattere contro di noi. Sono stupito: come possono uomini retti
come voi giungere a simili propositi? Venite ad Hastinapura e cerchiamo di
risolvere i problemi che sono sorti tra voi e mio figlio Duryodhana."
Quel messaggio irritò i Pandava: lo zio parlava di pace ora, ma non aveva
mai fatto niente per impedire al figlio di attentare alle loro vite, né per
frenare il suo odio. E ora che avevano ottenuto degli alleati forti parlava
di pace, auspicava una soluzione pacifica. Ciò nonostante Yudhisthira non
voleva inutili spargimenti di sangue, per cui decise di accettare l'invito.
Pochi giorni dopo i Pandava partivano alla volta di Hastinapu-ra.
Nell'antica città capitale dei Kuru vennero ricevuti con tutti gli onori e
con grande affetto. Soprattutto, i Pandava apprezzarono le manifestazioni di
simpatia da parte dei cittadini che ancora li amavano incondizionatamente e
non avevano mai accettato i sentimenti e le vili strategie di Duryodhana.
32
La divisione del regno
Quando però Dritarashtra introdusse con modi paterni il suo discorso di
benvenuto, Yudhisthira non poté fare a meno di scorgervi espressioni false.
Tuttavia egli rispose senza astio, nascondendo la sua preoccupazione circa
le proposte che in seguito lo zio avrebbe avanzato; per lui la cosa più
importante era di porre fine a una contesa che oramai durava da troppo
tempo, per cui in quel momento avrebbe accettato qualsiasi cosa a patto che
lui e suoi fratelli non fossero esclusi dai loro diritti di nascita.
L'orazione di Dritarashtra fu lunga e piena di parole cortesi, finché non
si arrivò al punto cruciale della questione: il possesso dei territori.
"Tu, Yudhisthira, sei il più anziano dei figli miei e di Pandu, e
dunque ti spetterebbe di diritto l'intero territorio che è sempre stato dei
nostri avi. Ma come desiderate governare voi fratelli, anche Duryodhana lo
vuole e non sono riuscito a trovare argomenti validi per convincerlo
diversamente. D'altra parte lui ha paura che voi vogliate privarlo di questa
prospettiva tanto che questo sentimento nel corso degli anni si è tramutato
in astio. Io credo sia saggio accontentare tutti dividendo il regno, cosicché
da una parte regnerete voi, e dall'altra Duryodhana. Questa è la mia
proposta; meditateci sopra e poi ditemi cosa ne pensate."
Accettare tale suggerimento avrebbe significato per Yudhisthira privarsi di
parte del suo impero, ma egli fu entusiasta dell'idea. Tutti gli uomini
giusti presenti all'assemblea applaudirono.
"Noi accettiamo la tua proposta come se fosse un ordine proveniente dal
nostro stesso padre," disse Yudhisthira. "L'unica cosa che
desideriamo è di espletare in pace i nostri naturali doveri di regnanti. Se
la divisione del regno può assicurare ciò ed evitare un conflitto armato,
noi siamo felici di prenderne solo metà."
E Dritarashtra disse:
"Tutto il territorio che si estende a sud-ovest di Hastinapura sarà
vostro, mentre tutto il resto rimarrà a Duryodhana."
A queste parole nessuno riuscì a frenare un tremito di rabbia; non era un
mistero per nessuno che la regione affidata ai Pandava fosse praticamente un
deserto, senza grandi città, né acqua, né vegetazione, mentre la zona
destinata a Duryodhana era quella più florida e sviluppata.
Dritarashtra cercava di imbrogliarli, ma stranamente né Yudhisthira né
Krishna dissero nulla, e anche gli altri tacquero. Il figlio di Dharma
accettò con parole gentili, ringraziando di cuore.
Quel giorno stesso, alla presenza santa di Vyasa, Yudhisthira fu incoronato
re, e pochi giorni dopo i Pandava partirono alla volta del loro territorio.
La capitale del regno era Khandava-prastha, una piccola città che nel
passato era stata la capitale dei Kuru. Una volta era stata così opulenta e
florida che era ancora comune il detto "ricca come Khandava-prastha",
sennonché un giorno un rishi le aveva scagliato contro una disastrosa
maledizione che l'aveva fatta deperire al punto da ridurla in un piccolo
paese circondato da uno sterile deserto. Allo stato attuale, tutt'intorno
non si vedeva altro che desolazione; da secoli niente cresceva più in quel
luogo maledetto.
Ma i Pandava non si sentirono scoraggiati e si misero al lavoro. Il principe
di Dvaraka, Krishna, che aveva gli occhi tanto simili ai petali del fiore di
loto, in meditazione chiamò Indra e gli chiese di far cadere grandi piogge
allo scopo di rendere fertile il terreno; e in effetti in pochi giorni
l'intero territorio di Khandava fu inondato da continue piogge. In onore e
ringraziamento al deva, la capitale sarebbe poi stata chiamata Indra-prastha.
Poi Krishna chiamò Vishvakarma, al quale chiese di costruire meravigliose
città, con stupendi palazzi, fontane e prati. La notizia che a Khandava
qualcosa di incredibile stava accadendo cominciò a richiamare tanta gente e
persino numerosi deva, tutti desiderosi di contribuire alla realizzazione
del fantastico regno dei Pandava.
Non passò molto tempo che dove prima si estendevano aridi territori, ora si
poteva ammirare un luogo pieno di verde, di fiumi, laghi e fantastiche città.
Le incredibile notizie che riguardavano il nuovo impero dei Pandava si
diffusero velocemente e fiumane di persone, provenienti da ogni parte del
mondo, vennero, sicure che nel regno dei virtuosi fratelli avrebbero potuto
vivere senza privazioni materiali né spirituali. Presto Khandava-prastha
pullulò di cittadini.
Arrivò il giorno dell'inaugurazione.
Vyasa stesso e molti altri saggi dal cuore privo di ogni attaccamento a
questo mondo vennero personalmente a dirigere la cerimonia e a recitare
auspiciosi mantra vedici.
Quando tutto fu terminato, Krishna e i Vrishni si congedarono e tornarono a
Dvaraka. A Indra-prastha molti sapevano chi era Krishna e l'amavano con
tutto il loro essere, così al momento della partenza si sentirono come
abbandonati. Ma nelle loro menti egli restava sempre presente. Per i Pandava
cominciò un nuova vita di serenità, i tempi terribili di Varanavata
parevano trascorsi da millenni.
33
Arjuna in pellegrinaggio
Trascorsero anni: ormai sembrava che nulla potesse disturbare il divino
dominio dei cinque fratelli, che regnavano sui loro sudditi con tale
rettitudine e giustizia che mai nessuno trovava niente da lamentarsi neanche
per le cose più insignificanti.
Un giorno Narada, il figlio diretto di Brahma, celebre saggio celestiale,
giunse in visita a Indra-prastha e chiese a Yudhisthira di poter parlare con
tutti i Pandava. Dopo il puja, i sei si appartarono.
"Ciò che voglio dirvi è che questa pace con i vostri cugini è solo
apparente. Essi non vi hanno ancora perdonato il fatto di essere superiori a
loro in qualsiasi cosa, né lo faranno mai. Duryodhana è colmo di invida e
di odio; non riesce a spiegarsi da dove prendiate le capacità di fare le
cose più impossibili. Non potrà mai capire che l'origine della vostra
forza è la purezza di cuore e la devozione al Signore Supremo che ora è
presente in questo mondo. Duryodhana tutto il giorno soffre di una rabbia
senza limiti, ancor più ora che avete saputo trasformare Khandava-prastha
in un florido regno. Anche se tace e non complotta apertamente contro di
voi, non dovete illudervi perché lo farà appena ne avrà l'opportunità.
In questi giorni state assaporando un momento di felicità, ma è una cosa
temporanea; dovrete ancora sopportare dolori e disagi."
"Ma come possono danneggiarci, ora?" chiese Yudhisthira.
"Abbiamo un florido regno, un esercito forte e ben addestrato, degli
alleati fedeli. Cosa potrebbero ideare?"
"Loro sanno bene che nel passato non sono riusciti a distruggervi perché
siete sempre stati uniti, ed ora che siete diventati più potenti risulterà
ancora più difficile. La strategia di Duryodhana sarà questa: cercherà di
creare ragioni di dissenso per farvi litigare e rompere questa vostra
unione."
"Ma noi in tutta la nostra vita non siamo mai stati l'uno contro
l'altro," disse il figlio maggiore di Kunti, "non abbiamo mai
litigato. Come sperano di riuscirci loro?"
"Draupadi è l'unica ragione per cui potrebbero sorgere dissensi,"
rispose Narada, "per quanto grande sia l'amore che nutrono l'uno per
l'altro, gli uomini che hanno in comune l'attaccamento per la stessa donna
rischiano ad ogni attimo di litigare e distruggersi fra di loro. Ricordate
come Sunda e Upasunda si uccisero per il possesso di Tilottama? Perciò
prendete precauzioni e non fidatevi ciecamente dell'amore fraterno che vi
unisce."
Un consiglio dato da un personaggio come Narada non poteva certo essere
minimizzato.
Anche dopo che fu partito, i Pandava continuarono a discutere della cosa per
trovare una soluzione. Bisognava evitare che qualcuno di loro, vedendo il
fratello in compagnia di Draupadi, diventasse geloso e cominciasse a covare
pensieri e sentimenti foschi.
"Una soluzione," concluse Yudhisthira, "potrebbe essere
questa: nessuno di noi dovrà più vedere Draupadi in compagnia di un altro.
Ogni settimana starà con uno di noi a turno, e se qualcuno trasgredirà
questa regola andrà in esilio per dodici anni a visitare i luoghi
santi."
A tutti sembrò una buona idea e da quel giorno quella regola fu osservata
con rigore. Ma evidentemente le cose non dovevano andare così lisce per i
Pandava neanche in quel periodo alquanto sereno.
Un giorno, infatti, mentre Draupadi era con Yudhisthira, un brahmana arrivò
alla reggia e chiese di parlare urgentemente ad Arjuna, che lo ricevette
immediatamente.
"Sono stato derubato delle mie mucche," si lamentò, "che
sono la mia unica ricchezza. Per favore, fai presto, corri a recuperarle e
punisci i criminali."
Sollecitato fortemente dal brahmana, Arjuna decise di inseguire all'istante
i ladri, ma si ricordò che aveva lasciato le armi nella sala dove
Yudhisthira era in compagnia di Draupadi. Il virtuoso Pandava era incerto su
quale fosse la cosa giusta da farsi.
"Se non recupero le mucche del brahmana, il re ed io stesso saremo
aspramente criticati per non aver assolto ai nostri doveri. Se invece entro
nelle stanze di Yudhisthira potrò restituire la refurtiva ma dovrò andare
in esilio. Devo farlo, non c'è alcun dubbio che fra i due mali il primo è
sicuramente il peggiore."
Riprese le armi, Arjuna inseguì i ladri e recuperò con facilità la
refurtiva. Poi tornò a corte.
"Cari fratelli," disse, "ricorderete senz'altro il nostro
accordo che era più di un voto. Oggi non sarei dovuto entrare nelle stanze
di Yudhisthira, per cui andrò via per dodici anni. Impiegherò bene questo
periodo: viaggerò per i luoghi più santi di Bharata-varsha e starò
insieme con grandi saggi dai quali imparerò molte cose."
I suoi fratelli erano costernati.
"Ma non hai l'obbligo di partire," disse Yudhisthira. "Tu sei
entrato nella sala per prendere le armi. Dovevi proteggere le proprietà del
brahmana, che è il primo dovere di uno kshatriya. Non sei entrato per
motivi di gelosia o altro."
"Voi sapete bene quanto sia importante per uno kshatriya dire sempre la
verità e non mancare mai alla parola data," ribatté Arjuna. "Se
ciò accadesse anche una sola volta la sua reputazione sarebbe rovinata e
nessuno lo rispetterebbe più. E se il popolo non stima i suoi governanti
ogni cosa si degrada e la pace è distrutta. Noi abbiamo promesso: se per
affetto familiare non manteniamo il nostro patto la gente dirà che siamo
deboli, che siamo troppo attaccati ai piaceri della famiglia e ci criticherà.
Non possiamo permetterci un simile rischio. Non preoccupatevi. Questi anni
non saranno gettati via, imparerò cose che poi ci potrebbero tornare
utili."
E il figlio di Indra partì per quel lungo viaggio.
Sebbene facesse soste solo di rado, ebbe modo di incontrare tante persone e
conoscere nuovi usi e costumi.
Pochi mesi dopo la partenza da Indra-prastha, infatti, Arjuna incontrò
Ulupi, la figlia del re dei naga, con la quale si sposò ed ebbe un figlio
di nome Iravan. E in seguito, dopo che ebbe ri-preso il cammino, dirigendosi
verso nord-est, nel versante orientale delle Himalaya entrò nella città di
Manalur, dove conobbe Citrangada, la figlia del re Citrasena. I due si
innamorarono e si sposarono. Dalla loro unione nacque un bambino che
chiamarono Babruvahana. Dopo qualche mese trascorso in compagnia della
principessa di Manalur, Arjuna riprese il suo pellegrinaggio.
Da allora erano passati alcuni mesi quando Arjuna arrivò a Dvaraka, la città
del suo grande amico Krishna.
34
Arjuna e Subhadra
Non vi era giunto per caso. Aveva dei motivi. Quello principale era
certamente il forte desiderio di rivedere il suo più caro amico, ma si
sentiva anche mosso da un'enorme curiosità: sia ad Indra-prastha che
durante il tirtha-yatra, infatti, aveva sentito parlare da molti della
sorella minore di Krishna, della quale tutti dicevano essere bellissima e di
magnifico carattere. Egli voleva approfittare del suo arrivo a Dvaraka per
vederla. Proprio per questo suo desiderio preferì non farsi riconoscere e
si travestì da yati.
Così camuffato entrò a Dvaraka, dove passò inosservato. Ma Krishna, che
è l'onnisciente Signore Supremo, sapeva dell'arrivo dell'amico e anche
della sua intenzione di conoscere Subhadra, per cui andò a trovarlo nella
modesta dimora dove aveva preso alloggio. Quando Arjuna lo vide entrare si
alzò per abbracciarlo, felice di rivederlo dopo tanto tempo di lontananza.
I due parlarono a lungo, di tante cose, e anche di Subhadra.
"Sì, io sapevo che volevi conoscere mia sorella," disse Krishna,
"e credo di non sbagliare se ti dico che anche a lei farebbe piacere.
Da parte mia non ho niente in contrario, ma credo che dovremo risolvere un
problema serio: Balarama ha già promesso Subhadra al suo discepolo
Duryodhana, e ciò non ha fatto piacere né a me né a lei. Non sarà facile
convincerlo a ritirare la parola data."
"L'unica cosa da fare," continuò Krishna, "è che domani
stesso tu la rapisca e la porti via con te. Io stesso mi occuperò poi di
placare le ire del mio focoso fratello. Anche se all'inizio lo considererà
un atto irrispettoso, sii sicuro che poi ti perdonerà e che riotterrai la
sua stima e amicizia."
E così accadde.
Arjuna rapì la bellissima Subhadra e Krishna convinse Balarama e gli altri
Vrishni a perdonare il Pandava e a rinunciare alle loro intenzioni di
vendetta.
Il matrimonio fu celebrato e i due vissero a Dvaraka per il rimanente
periodo di esilio di Arjuna. Quando questo fu terminato, una lunga
processione di Vrishni accompagnò gli sposi a Indra-prastha.
Appena le fu presentata Subhadra, Draupadi ebbe un impeto di gelosia, ma ben
presto le due principesse finirono col diventare buone amiche. Tutti
festeggiarono il ritorno di Arjuna.
Dopo un po’ Subhadra diede alla luce Abhimanyu. Nello stesso periodo
Draupadi partorì un figlio per ogni marito: da Yudhisthira nacque
Prativindhya, da Bhima Sutasoma, da Arjuna Shrutakarma, da Nakula Satanika e
da Sahadeva Shrutasena.
35
Il rogo della foresta di Khandava
La nascita dei ragazzi portò una ventata di grande felicità nel regno dei
Pandava. Tutti erano contenti e in ogni città e villaggio di Indra-prastha
si festeggiò per giorni l'avvenimento.
I Vrishni erano ripartiti, ma Krishna era rimasto. La sua presenza conferiva
alla corte un'atmosfera di spiritualità e di gioia, e specialmente Arjuna,
con il quale trascorreva la maggior parte del tempo, era felice della sua
presenza. Un giorno i due amici stavano passeggiando lungo le rive dello
Yamuna, nella vicinanze della foresta di Khandava e stavano parlando
dell'infanzia di Krishna, dei suoi genitori adottivi Yashoda e Nanda, dei
suoi amici e familiari, delle gopi, prima fra tutte Radharani, quando un
brahmana dallo splendore simile a quello del sole si avvicinò a loro. Il
suo portamento era così solenne, la sua figura così alta e maestosa che i
due si alzarono in piedi e lo salutarono con rispetto.
"O brahmana che splendi come un deva," lo salutò Krishna,
"dicci cosa possiamo fare per te."
"Sono malato," rispose lui. "Da tanto tempo soffro di un
grave male e i medici mi hanno assegnato una dieta per ritrovare la salute;
ma non trovo nessuno che sia in grado di fornirmi gli alimenti di cui ho
bisogno. Voi siete guerrieri famosi in tutto il mondo e il primo dovere
della vostra classe sociale è di sostenere e aiutare i brahmana. Vorreste
aiutarmi a trovare gli alimenti di cui necessito?"
"Certamente, siamo disposti a fare qualsiasi cosa per te," dissero
i due. "Cosa dobbiamo fare?"
Lo strano personaggio decise di rivelare la sua vera identità.
"Cari amici, io non sono un brahmana, ma Agni, il deva del fuoco, colui
al quale i brahmana offrono tutti i sacrifici vedici. Vi racconterò come è
accaduto che mi sono ammalato.
"Molto tempo fa il re Svetaki celebrò cinque sacrifici del fuoco che
durarono dodici anni, e fece versare nelle fiamme una tale quantità di ghi
che gradualmente le mie condizioni di salute si sono rovinate. Da quel
giorno smisi di ardere negli hotra vedici, per cui i brahmana si allarmarono
al punto da spaventarsi: non ardendo il fuoco sacro l'intera società
soffriva per mancanza di virtù e di necessità materiali. Allora Brahma
intervenne e mi disse: "Devi ricominciare a bruciare!" Io gli
risposi che ero malato e che non potevo. E lui ribatté: "Per ritrovare
la salute devi divorare con le tue fiamme la foresta di Khandava".
"Così sono venuto subito in questo luogo e ho cominciato a causare
incendi. Ma sfortunatamente qui vive con tutta la sua famiglia il serpente
Takshaka, che è un grande amico di Indra, per cui ogni volta che tento di
bruciare Khandava lui fa cadere fiumi di acqua che spengono le mie fiamme e
io sono costretto a ritirarmi. Da allora la mia salute è andata peggiorando
sempre più e devo assolutamente guarire. Io ho bisogno di due potenti
guerrieri che sappiano tenere lontano Indra dalla foresta: solo così avrò
la possibilità di divorarla. Aiutatemi, e ve ne sarò riconoscente."
Senza indugio, i due amici accettarono di aiutare Agni.
"Però se dovremo combattere contro i deva," dissero, "avremo
bisogno di armi. Con queste che abbiamo non riusciremmo ad affrontare una
simile battaglia. Procura delle armi adatte, dunque."
Agni fu d'accordo e chiamò Varuna; i due deva consegnarono agli amici
trascendentali armi celestiali con le quali avrebbero potuto affrontare
qualsiasi nemico. Ad Arjuna offrirono l'arco Gandiva e una faretra
miracolosa che non esauriva mai le sue scorte di frecce, nonché uno
strabiliante carro da guerra, mentre Krishna ricevette da Agni il disco
Sudarshana. Ottenute queste ed altre armi, i due si sentirono pronti per la
difficile impresa. A quel punto Agni si sentì già vittorioso e si gettò
nei boschi di Khandava, espandendo le sue furiose fiamme. In pochi minuti la
foresta divenne un inferno di grida di uomini e animali, che si mischiavano
al crepitio delle fiamme e al fragore degli alberi che cadevano; il rumore
era addirittura assordante.
E mentre il fumo saliva altissimo, nel cielo cominciarono ad addensarsi
pesanti nubi nere, che aumentarono sempre di più con il passare dei minuti;
poi i primi lampi, le prime gocce. Indra stava arrivando.
Krishna e Arjuna si prepararono al combattimento e quando la pioggia cominciò
a cadere, i due inondarono il cielo di armi infuocate, prosciugando le
nuvole. Poi la battaglia si fece feroce: i deva contrattaccarono, fino a che
il duello divenne diretto. Dopo una violenta battaglia Indra fu sconfitto.
Egli, che durante il combattimento aveva ammirato il magnifico valore del
figlio, si ritirò lasciando ardere la foresta. Del resto Takshaka era
altrove e non correva alcun pericolo.
Khandava bruciò per giorni e giorni, ridando la salute ad Agni.
Quando il furore delle fiamme si placò, Krishna e Arjuna si rinfrescarono
con soddisfazione nelle acque chiare dello Yamuna.
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